Vice – L’Uomo nell’Ombra di Adam McKay | Recensione

Pubblicato il 5 Gennaio 2019 alle 15:00

Arriva in Italia Vice, nuovo film scritto e diretto da Adam McKay.

La virata di Adam McKay  verso il cinema didattico si fa ancora più evidente con Vice – L’Uomo nell’Ombra, biopic “ufficioso” sul vice presidente degli Stati Uniti Dick Chaney che il regista ricostruisce da scampoli di informazione raccolti qua e là: apertamente lacunoso e dichiaratamente parziale, il film riesce – come ogni buon biopic dovrebbe fare – a trasformare una persona in un personaggio che sia non solo adatto ad una storia da raccontare attraverso il cinema, ma anche intrigante per il pubblico. E di certo questo uomo politico misterioso, sempre schivo e chiuso in se stesso ben si presta a diventare il bersaglio del comico McKay, che come già aveva fatto con La Grande Scommessa – un film più bello e riuscito di questo, c’è da dirlo – guarda a fatti drammatici con spiccata ironia.

L’irriverenza diventa quindi un nuovo canone formativo, e McKay è l’insegnate spiritoso che per illustrare ai propri alunni/spettatori il funzionamento di leggi, regole e tecnicismi vari ed eventuali, preferisce battute e metafore visive più o meno riuscite (ma molto meno riuscite, se comparate a quelle geniali del film precedente).

Paradossalmente è la metafora meno decantata, quella più velata e che più di tutte preferisce rimanere nell’ombra (come il suo protagonista) a sembrare la più riuscita: pronto a tutto per ottenere ciò che vuole ma integerrimo quando si tratta di proteggere i valori familiari, Chaney subirà una serie di infarti per tutto il film fino a quando, ormai collassato, sopravviverà grazie addirittura ad un trapianto; il suo continuo rialzarsi in piedi corrisponde, per tutto il film, ad un progressivo e sistematico peggioramento della sua morale (e quindi di quella degli Stati Uniti, che lui sembra portare a picco con se), fino a quando pur di tornare in carreggiata da un punto di vista politico finirà col barattare perfino quell’unica cosa che non era mai stato disposto a svendere, vale a dire l’amore della figlia omosessuale.

E’ come se McKay, per tutto il film, si chiedesse quando e a che punto Chaney avrebbe dovuto mollare, interrompendo le sue machiavelliche trame alla ricerca del potere. Addirittura prova a metterci una pezza, facendo scorrere i titoli di coda a metà film e inventando – con scritte in sovrimpressione – il finale a lieto fine che avrebbe desiderato per l’America. Ma neanche quello riesce a fermare il bieco politico.

Bieco politico interpretato in maniera sottilissima da un Christian Bale mai davvero sepolto sotto il trucco e il parrucco di Abby Lyle e Cristina Waltz: il talento di questo straordinario attore – che, ancora, era stato autore di una prova ancor più bella ne La Grande Scommessa – non si accontenta di far recitare il trucco prostetico e ci regala una performance tutta occhi e bocca, vale a dire le uniche parti del suo viso che possiamo ricondurre a Bale e non a Chaney: è una performance molto più raffinata di quanto si possa sospettare, perché a parlare non sono le rughe e il grasso finto ma quegli sguardi imperscrutabili e quelle sue smorfie sghembe; l’anno scorso Gary Oldman ci ha dato un Winston Churchill tutto fisico e corde vocali, un Churchill orso poderoso che ingombrava ogni stanza cui metteva piede, mentre questo il Dick Chaney di Bale è sempre rannicchiato, sempre storto, non lo vedi mai quando è in riunione con altri pezzi grossi ma è sempre lì, dietro di loro, a suggerire, indirizzare, pianificare.

Un temibile mix fra uno squalo, una iena e un serpente, addomesticato solo da una Amy Adams così straordinaria da sembrare più straordinaria di lui.

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