Il Ponte delle Spie – Recensione

Pubblicato il 18 Dicembre 2015 alle 23:48

1957, l’apice della Guerra Fredda. A New York, l’FBI arresta Rudolf Abel, presunta spia russa. James B. Donovan, avvocato specializzato in assicurazioni, viene incaricato di assumere la sua difesa trovandosi in conflitto con l’ostilità dell’opinione pubblica. Quando la spia statunitense Francis Gary Powers viene catturata su territorio sovietico, Donovan viene inviato a Berlino per trattare uno scambio di prigionieri tentando di liberare anche Frederic Pryor, uno studente americano trattenuto in Germania Est.

Il Ponte delle Spie

James B. Donovan, l’uomo che divenne l’ago della bilancia in un braccio di ferro diplomatico nel delicato clima di tensione tra USA e Russia. Gli conferisce profondità Tom Hanks alla sua quarta collaborazione con Steven Spielberg (dopo Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi e The Terminal), insieme ancora una volta in una storia tratta da fatti reali. Nonostante si tratti di un film costituito quasi esclusivamente di dialoghi, i 140 minuti di durata vanno giù come un bicchiere d’acqua grazie all’ispirata sceneggiatura co-scritta dai fratelli Coen e da un cast che si avvale di ottimi caratteristi.

Il film si divide in due parti, la prima ambientata negli Stati Uniti e la seconda a Berlino con la sontuosa ricostruzione scenografica d’epoca a cui Spielberg ci ha ormai abituati. Una dicotomia che mette a confronto le condizioni sociopolitiche dell’est e dell’ovest durante la Guerra Fredda schierandosi dalla parte dell’American Way non senza esaltarne i difetti ed evitando di scadere nella bassa propaganda.

Donovan decide di prendere le difese della presunta spia russa Abel, interpretato da un mastodontico Mark Rylance. Il protagonista deve così confrontarsi con l’ostilità del popolo americano, esponendo la sua famiglia al fanatismo che ne consegue, e si trova preso in una tenaglia tra il dovere verso il proprio paese e la fedeltà alla sua etica professionale. La grandezza del personaggio sta nel considerare le parti in causa come esseri umani a prescindere dalla loro nazione di origine a dispetto degli interessi politici che sarebbe chiamato a rappresentare.

La retorica didascalica del film è tanto prevedibile quanto inattaccabile ed avvincente. Lo zelo, la caparbietà e l’umanità di Donovan rappresentano tutto quanto dovrebbe essere il sistema americano in relazione ai principi su cui è fondato. Ed è un’opera che riflette sull’idiozia dei confini politici e su quanto sia sbagliato ragionare in termini di “noi” e “loro”.

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