Assassinio sull’Orient Express di Kenneth Branagh | Recensione

Pubblicato il 1 Dicembre 2017 alle 14:02

Il film è in programmazione nei cinema italiani.

Non ci vuole certo Hercules Poirot per capire che, giunti ormai alle soglie del 2018, la televisione sta uccidendo il cinema: l’inesorabile avanzata socio-culturale della nuova arte televisiva, che spinge senza tregua sia dal versante quantitativo sia da quello qualitativo, sta conquistando in lungo e in largo; le sale cinematografiche si stanno svuotando, il mercato si dissangua, l’ora del decesso è prossima.

L’unica contromisura possibile rimasta al cinema è quella di giocare lo stesso gioco della televisione: esasperare la serialità non solo è necessario ma a questo punto perfino inevitabile (lo abbiamo capito pure in Italia: grazie Sydney Sibilia per averci mostrato la via) perché lo spettatore, se conquistato, tornerà sempre a vedere il prossimo film.

Certo, il cinema franchise è un’operazione colossale e per questo rischiosa – guardate La Mummia e il Dark Universe; guardate La Torre Nera (in quel caso non hanno proprio capito in che epoca stiamo vivendo) – ma se realizzata con criterio può portare a risultati incredibili.

Ne sa qualcosa Kevin Feige, che è un genio e un gigante. Ne sa qualcosa anche Kenneth Branagh, che nel suo piccolo è altrettanto geniale e che, sempre nel suo piccolo, può essere considerato un uomo-franchise.

Al di là del suo stile teatrale (il suo cinema d’altronde è nato come costola in celluloide della produzione shakespeariana) ha dato il là al micro-franchise di Thor (all’interno del macro-franchise Marvel), a quello Disney live-action col bellissimo Cenerentola, ha perfino reboottato la spia di Tom Clancy Jack Ryan con L’Iniziazione (lì però gli è andata male, ma ehi, nessuno è perfetto).

Adesso, visto che era da un po’ che non si vedevano i gialli deduttivi al cinema (e il film è stato uno successo commerciale anche perché non ha rivali con cui confrontarsi), Branagh prende Agatha Christie e il suo celebre investigatore Hercules Poirot e crea una nuova saga, dimostrando ancora una volta di aver ben chiaro come funziona il meccanismo cinema nel ventunesimo secolo.

Il remake di Assassinio sull’Orient Express può anche non essere all’altezza del film originale di Sidney Lumet – che era più sagace e meno agghindato, più diretto che teatrale – ma l’intelligenza di Branagh sta nel fatto che non cerca mai di imitarlo: sa bene che quel film appartiene a un’epoca molto diversa da quella del suo film, e nonostante (e chiaramente) la storia della Christie rimanga pressoché invariata le due pellicole non potrebbero essere più diverse.

Se nella visione di Lumet (anche quella con un cast internazionale d’eccezione, con Anthony Perkins, Sean Connery, Jean-Pierre Casselle, Vanessa Redgrave, Ingrid Bergman che vinse addirittura l’Oscar col ruolo che oggi ha ereditato Penelope Cruz) il mistero e la risoluzione del mistero erano il cuore pulsante del film (l’indizio principale, vero e proprio snodo della vicenda – il rapimento di Daisy – ci veniva raccontato nel prologo), per Branagh Assassinio sull’Orient Express diventa Poirot-centrico: il prologo serve a mettere in mostra tanto le sue abilità investigative (descritte quasi come un superpotere e una supermaledizione, idea geniale nell’era del cinecomic) quanto le sue debolezze (il comportamento ossessivo-compulsivo, solo accennato nel film di Lumet, qui diventa una filosofia di vita, un modo di guardare il mondo che, proprio nel corso dell’indagine sul lussuoso treno, verrà messo alla prova, concedendo al personaggio una buona parabola evolutiva).

L’intenzione è chiara: dare al pubblico un nuovo beniamino, mostrargli di cosa è capace ma anche sottolineare la sua umanità (i monologhi, molto teatrali naturalmente, in cui l’eroe parla all’amore di un tempo ormai perduto, sciorinando le proprie paure e insicurezze), con un finale che diventa più un arrivederci, a presto che un addio (né Lumet né Albert Finney, l’Hercules Poirot di allora, tornarono per Assassinio sul Nilo).

Al netto di molta spettacolarizzazione – sia visiva, con tanti virtuosismi, tante panoramiche esterne (nel film del ’74 non uscivamo mai dal treno), sia narrativa, con una buona dose di action (che il pubblico oggi vuole) – la storia procede spedita come una locomotiva (un buonissimo Michael Green in sceneggiatura, che inserisce molti elementi di riflessione neanche troppo velati su religione e razzismo) fino al leggendario e attesissimo show down, tipico dei gialli deduttivi, quando cioè l’investigatore chiama a raccolta tutti i sospettati per fornire (al loro e agli spettatori) la risoluzione dell’indagine.

Un’ottima produzione cinematografica (c’è dietro la Scott Free di Sir Ridley Scott), che conosce se stessa e le sue intenzioni (ed è anche molto scaltra: interessante la scelta di affidare a Johnny Depp un ruolo simile, proprio lui che di malefatte nell’ultimo periodo ne ha compiute a bizzeffe, chiedetelo ad Amber Heard): un budget miracolosamente basso (solo 55 milioni, che è pochissimo se consideriamo i nomi sfarzosi sul cartellone e i loro generalmente esosi cachet) ha permesso al film di Branagh di diventare un piccolo grande successo commerciale, un buon remake e un esemplare prodotto d’intrattenimento.

Prossima tappa, il Nilo. Perché Poirot non può fermarsi. Proprio come il cinema.

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