Baby Boss – Recensione

Pubblicato il 21 Aprile 2017 alle 23:27

Timothy è un bambino di sette anni anni coccolato e viziato dai genitori fino al giorno in cui arriva il suo fratellino, un neonato in giacca e cravatta che parla come un adulto, inviato sulla Terra dalla celeste Baby Corp. per impedire alla Puppy Co. di lanciare sul mercato un cucciolo che catalizzerà l’affetto delle famiglie sottraendolo ai bambini. Ostile al Baby Boss, Timothy decide di aiutarlo nel suo incarico. A missione compiuta,
infatti, il piccolo tornerà in cielo.

Chiunque, da bambino, abbia vissuto l’arrivo di un fratellino, passando dalla posizione privilegiata di figlio unico a dover dividere l’affetto dei suoi genitori, si riconoscerà nei sentimenti di gelosia del piccolo Timothy e nell’errore di quantificare, pesare l’amore di mamma e papà sentendosi messi in disparte. Tim, però, è anche dotato di una fervida fantasia attraverso la quale filtra le sue vicissitudini ed è in quest’ottica surreal-demenziale che il regista Tom McGrath (Madagascar 1 e 2, Megamind) ci presenta la metafora, retorica seppur suggestiva, alla base del nuovo film animato Dreamworks.

Il rapporto conflittuale tra i due fratellini costretti a coesistere si trasforma in una comunella da buddy movie infantile per scongiurare un’operazione di mercificazione sentimentale nella quale sono coinvolti i loro stessi genitori e l’inaridito boss della loro azienda (con la voce di Steve Buscemi nella versione originale). Ed è proprio qui che il film cade in contraddizione facendo proprio del sentimentalismo a buon mercato l’elemento fondamentale per prendere il pubblico allo stomaco. Risulta inefficace come operazione satirica e non riesce a dire nulla di innovativo sul tema della famiglia.

Il Baby Boss (Alec Baldwin) è un capolavoro di ruffianeria nel design e nella caratterizzazione del neonato con i teneri occhioni e la voce da adulto, una sorta di riproposizione in chiave moderna ed animata di Senti chi parla, classico della commedia anni ’80.

La vicenda è sorretta da un livello d’animazione che non raggiunge i fasti di altri prodotti Dreamworks. Offre comunque qualche gag divertente, l’esilarante sequenza action dei bambini inseguiti dalla grottesca “bambinaia” e il consueto minestrone di citazioni dalla cultura popolare più o meno riuscite. Certo, gli imitatori di Elvis Presley da ridicolizzare in quel di Las Vegas sono ormai diventati un insopportabile cliché. Quando il film sembra finito, restano ancora venti minuti di un prevedibile epilogo strappalacrime (con un’inutile scena dopo i titoli di coda).

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