Kamandi: l’ultima e più audace epopea di Jack Kirby

Pubblicato il 25 Agosto 2017 alle 11:35

Perché Kamandi rappresenta a distanza di più di trent’anni ancora una sfida e come è riuscito a fare breccia nell’immaginario dei lettori?

Nel 1972 l’epopea de Il Quarto Mondo si stava affievolendo. La sua eredità sarebbe stata fondamentale per la mitologia della DC Comics, per tutto il fumetto supereroistico, per la fantascienza, e per il medium in generale ma le vendite non erano incoraggianti, le serie iniziarono a chiudere e l’allora editor capo della DC Carmine Infantino chiese a Jack Kirby una nuova serie con connotati specifici.

Infantino aveva provato ad acquisire i diritti per i fumetti de Il Pianeta delle Scimmie – vero e proprio fenomeno al box office del 1968 e che nel ’72 aveva già generato svariati sequel – ma senza successo – fu allora che si rivolse a Kirby per la creazione di una serie dai toni simili. Il Re recuperò e rielaborò alcune storie brevi come “The Last Enemy!” per la serie della Harvey Comics Alarming Tales e soprattutto al striscia rimasta inedita del 1956, Kamandi of the Caves le quali concettualmente si avvicinavano moltissimo al film di Franklin J. Schaffner.

Con la cancellazione di Forever People – cancellazione “strategica” di Infantino – venne fatto spazio nella programmazione di Kirby e Kamandi vide la luce nell’ottobre/novembre del ’72.

Può Kamandi essere considerato la punta più alta della produzione di Kirby alla DC Comics? Francamente no: Il Quarto Mondo rimane per per impianto e realizzazione l’opera più acclamata e serie come Challengers of the Unknown o OMAC sono di fatto più “rivoluzionarie” come ideazione. Perché allora Kamandi rimane l’opera più “caratterizzante” di Kirby alla DC Comics tanto da meritarsi l’appellativo di “most beloved Kirby creation”? [la creazione più amata di Kirby – NdA]

E’ proprio in Kamandi che Kirby riesce finalmente a sintetizzare forma e contenuto. La portata cosmica, il world-building prima prerogativa del Re, viene “ridotta” ed il tutto (ri)portato sulla Terra in quello che, spogliato degli elementi sci-fi come gli animali antropomorfi che rimangono comunque carichi di profondi simbolismi, è sostanzialmente un romanzo di formazione on the road che affonda le proprie radici nella tradizione inaugurata da Kerouac ed in quella cultura beat che Kirby aveva già sfiorato in Superman’s Pal, Jimmy Olsen con concetti come la Zoomway, l’Habitat e La Zona Selvaggia.

E’ difficile estrapolare gli episodi più significativi o più riusciti della serie, proprio perché i 40 numeri firmati da Kirby sono un unico lungo arco narrativo, tuttavia è indubbio come Kamandi sia ancora oggi attuale, e freschissimo, perché in nuce è “semplicemente” la storia di un ragazzo alla scoperta del mondo.

Sì… ma quale mondo? Il nostro sicuramente ma radicalmente modificato proprio dalla tracotanza dell’uomo. Cosa o chi ci sarà dopo l’uomo?

Kirby vuole rispondere ad uno dei quesiti più profondi ed intimi della fantascienza e lo fa attraverso svariate “angolazioni” e riflessioni che il lungo viaggio che Kamandi compie attraverso l’America A.D. – After Disaster o dopo il disatro – stimolano e fra cui quella più pregnante è sicuramente quella legata alla tecnologia.

Il Re aveva già affrontato, ampiamente, il tema evidenziandone in maniera grandiosa l’aspetto “mitologico” e sottolineando in più di una occasione come ad essere deleterio non fosse il progresso scientifico quanto l’intervento di un “agente esterno”. In Kamandi invece l’elemento esterno viene assorbito dall’idea che, alla base del disastro che ha mutato il pianeta, ci sia un uso poco morigerato della tecnologia.

E’ indubbio che questo tipo di riflessione sia figlio del momento storico in cui Kamandi viene pubblicato: passate le minacce degli anni ’60, la Guerra Fredda avrebbe vissuto negli anni ’70 quella fase di consapevolezza che sarebbe sfociata poi nella spettacolare, e per fortuna innocua, fase finale degli anni ’80.  Kirby allora non fa altro che esaminare i possibili scenari di una catastrofe nucleare attraverso il punto di vista di Kamandi stesso il quale si ritrova in lungo ed in largo a fare i conti con l’impatto del disastro che ha coinvolto la sua Terra causato da forze che erano ben al di là del suo controllo e di quello dell’uomo.

E’ questo in definitiva quello che rende Kamandi ancora una serie attuale. Kamandi è l’ultimo ragazzo sulla Terra, non è l’ultimo umano o l’ultimo essere vivente, ma l’ultimo che osserva il mondo con i “nostri” occhi rimanendo stupefatto di come sia diventato bizzarro e pericoloso ma soprattutto di come sia “evoluto” senza la presenza dell’uomo seppur ritenuto all’apice del progresso e della catena alimentare.

Prendiamo come esempio i numeri dal #9 al #10:

Questi due episodi che ho voluto prendere come esempio contengono perfettamente l’idea della tracotanza dell’uomo: il Mostro che abita la stazione orbitante è qualcosa che potrebbe abitare la Terra dopo l’uomo ma è nella minaccia del Morticoccus – il virus creato in laboratorio – che la scienza diventa “cattiva” mettendo a repentaglio la Terra tutta prima ancora che Kamandi ed il suo gruppo di amici.

Kirby ci catapulta al centro dell’azione, anticipa scenari futuri e possibili mostrandoci le conseguenze della tracotanza dell’uomo in una parabola fantascientifica che profetizza come gli orrori della guerra, che lui stesso aveva vissuto in prima persona, potrebbero essere solo il preludio a cambiamenti irreversibili e radicali.

In definitiva Kamandi mostra anche uno degli aspetti più sottovalutati di Jack Kirby cioè la capacità di piegare riflessioni sulla società e sull’uomo in generale in parabole sci-fi dal forte impatto emotivo e capaci di catturare l’immaginazione del lettore e questo più di un decennio prima che scoppiasse l’idea di decostruire un genere per mostrarne l’intrinseca potenza e quasi due decenni prima che una ondata di scrittori britannici ne indagasse psicologicamente i protagonisti.

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