Watchmen è la serie dell’anno ma ha un grande limite

Pubblicato il 19 Dicembre 2019 alle 11:00

Giunti al finale di stagione (di serie) per Watchmen, l’adattamento televisivo di Damon Lindelof per HBO dal fumetto di culto in onda in Italia su Sky Atlantic, viene spontaneo tirare le somme, complice anche la fine del decennio.

Watchmen è davvero la serie dell’anno, come si sta leggendo in giro? E se non può esserlo, perché? Proviamo a rispondere a queste domande analizzandola a ritroso.

Innanzitutto un plauso, in tempi in cui preponderanti sono la regia, la fotografia e tutti gli aspetti “tecnici” che dovrebbero essere secondari nella serialità, va alla scrittura e alla struttura seriale di Lindelof. E’ stato coraggioso e allo stesso tempo indice di grande consapevolezza e rispetto del materiale di partenza da parte dell’autore scegliere di fare un sequel scardinando ciò che c’era stato prima sulla carta e piegandolo alla propria poetica. Non solo: ha anche dimostrato di avere ben chiara la tela su cui stava dipingendo la storia, sapendo esattamente dove voleva andare a parare.

Nella nostra recensione iniziale dicemmo che “questo Watchmen sembrava proprio un The Leftovers coi supereroi” e in effetti è vero. Non solo per i parallelismi di presentazione del personaggio di Regina King, qui regina incontrastata, ma proprio per la sensazione di straniamento che scatta nello spettatore mentre le immagini scorrono sullo schermo, tra un WTF e un sussulto per il colpo di scena stupefacente e allo stesso tempo adorabilmente nonsense della settimana (la macchina che ricade dal cielo).

Il merito secondariamente va agli interpreti, alla regia e ai comparti tecnici. Fra i primi Jean Smart che ci regala forse il suo personaggio più onesto dopo Legion, altro adattamento fumettistico d’autore da parte di Noah Hawley. Ma anche Jeremy Irons per aver così ben espresso tutte le manie di narcisismo e protagonismo di Adrian Veidt. Le inquadrature e la regia sono riusciti a creare una nuova iconologia per un mostro sacro, un pilastro dei comics come è stato Watchmen di Gibbons e Moore. Nelle maschere che portano paradossalmente i poliziotti dopo la Notte Bianca, nelle pillole di Nostalgia, il farmaco parte di un’appendice di Veidt nel fumetto e qui protagoniste, al centro dell’intenso sesto episodio.

Il pregio del serial è inoltre l’essere riuscito a mescolare abilmente le tematiche del fumetto – la paura della guerra, il concetto di superuomo tanto caro agli americani, il razzismo, con quelle care all’autore, la dicotomia “scienza e fede” fin dai tempi di Lost e le domande ancestrali della nascita dell’uomo. La tematica razziale qui però è preponderante e ricorda quanto fatto da Jordan Peele nel suo nuovo The Twilight Zone.

Per Lindelof scienza e fede sono le due facce della medaglia della nostra vita, e una paradossalmente non esclude l’altra. Chi è Dio e qual è il suo ruolo? E chi è l’Uomo, è al centro dell’universo come voleva il Rinascimento o è un’entità superiore a controllare ogni cosa?

Come in tribunale questo serial crea un “precedente” su come si dovrebbe adattare un qualsiasi tipo di opera originaria – libro, fumetto, film che sia. Proprio nella sua definizione di sequel sta però l’unico vero limite di Watchmen della HBO.

Perché se lo spettatore medio, che non ha mai letto il fumetto o visto il film, vuole approcciarsi a questo adattamento lo fa con grande fatica, con uno spaesamento non appagante, avendo bisogno di un libretto d’istruzioni e questo è un deterrente, perché riduce i destinatari del serial a un ben preciso cerchio di target. A suo favore però ha una struttura talmente serializzata, che costringe lo spettatore a fidelizzarsi e a tornare la settimana successiva per tentare di comprendere l’incomprensibile. Il finale funge proprio da “riassunto-spiegone” per chi non aveva mai letto/visto nulla in precedenza.

Quindi forse Watchmen non è la serie dell’anno – dovrebbe poter arrivare per tutti, come Lost e The Leftovers – ma sicuramente è l’adattamento dell’anno.

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