Revenge di Coralie Fargeat | Recensione

Pubblicato il 16 Maggio 2018 alle 20:00

Una giovane donna violentata si trasformerà in una macchina assassina bramosa di vendetta in questo b-movie con influenze art-house diretto da Coralie Fargeat.

Riesumare il genere revenge-rape movie e soprattutto riportarlo alla ribalta nell’era del girl-power, degli scandali di molestie e del movimento MeToo, rischiava di essere un’operazione commerciale che poteva tranquillamente scadere nel banale, melenso e inutilmente superfluo barra ridondante. E quindi viene da se che il grande merito della regista francese Coralie Fargeat (al suo terzo lungometraggio dopo Reality+ e Le Télégramme) è quello di non essere caduta nella trappola verso la quale aveva consciamente deciso di incamminarsi.

Se poi il film è recitato bene, ha un ottimo ritmo, tantissimi spunti visivi, diverse chiavi di lettura interessanti e (non può mancare in opere di questo genere) una notevolissima dose di violenza, molto stilizzata ma sempre di grande impatto (spesso repellente), allora diventa facilissimo voler bene a Revenge, un horror tanto piccolo quanto importante, e per quello che dice e per come lo dice.

La protagonista è la modella e attrice italiana (è nata a Milano) Matilda Lutz (l’avete vista nel pessimo The Ring 3 e nell’ancora peggiore L’Estate Addosso di Muccino), che interpreta Jen, una socialite statunitense col sogno di andare a vivere a Los Angeles. Amante segreta di un ricchissimo imprenditore francese, Richard, è in vacanza nella lussuosa villa di lui, che sorge nel bel mezzo del deserto americano.

L’idillio della coppietta viene interrotto da due amici di Richard, Stanley e Dimitri, che avrebbero dovuto raggiungere il proprietario di casa per una ricorrente battuta di caccia, ma solo qualche giorno dopo. I due sono in anticipo, e se all’inizio la loro presenza non sembra infastidire Jen, ben presto le cose prenderanno una piega drammatica.

Il genere rape&revenge non lascia molto spazio alle sorprese in fase narrativa: fin dall’inizio del film sappiamo esattamente quali pieghe prenderà la storia, conosciamo già il destino riservato a Jennifer (stuprata, lasciata a morire e poi in cerca di vendetta) ma la Fargeat è molto brava a scandire la successione degli eventi e ad arricchirli con una ricercatezza d’immagini davvero notevole (che ricorda molto lo stile di Ana Lily Amirpour: non è un caso che il film abbia molti punti in comune con lo psichedelico, disarmante e bellissimo The Bad Batch).

I tre personaggi maschili, presentati ad un diverso grado della catena alimentare (il più debole è il più brutto esteticamente e il più sgradevole, il secondo è puro istinto animalesco, il capo è il più bello, il più affascinante, ma anche il più calcolatore e naturalmente sarà l’obiettivo finale della protagonista) fanno da contraltare al personaggio femminile al centro della vicenda: nella prima parte Jen viene presentata come un oggetto, ammirabile esclusivamente dal punto di vista fisico e sessuale (come cioè viene vista dai tre uomini); dopo la scena di stupro e morte si trasforma, diventa un’idea politica e sociale, il riscatto del girl-power, diventa la personificazione antropomorfa del MeToo.

Per come ci viene descritta quella sequenza (impalamento che ricorda quello di Cannibal Holocaust e che ha chiaramente ambizioni metaforiche, col ramo che la penetra come un fallo maschile) è evidente che la protagonista muoia e poi risorga nel deserto (di biblica memoria), come se a resuscitarla fosse la forza femminista contemporanea. Non può permettersi il lusso di morire perché deve riprendersi la dignità che le è stata portata via.

Allo stesso modo l’iperviolenza surreale voluta dalla regista è l’escamotage per far soffrire quanto più cinematograficamente possibile i tre maschi predatori (che diventano prede): se il film fosse rimasto ancorato al realismo, i tre non avrebbero dovuto/potuto sopportare tutti i diversi livelli di atrocità che Jen gli farà conoscere. E se cercate questo tipo di intrattenimento, uno che indulge senza timore (anzi beandosene) nel gore tarantiniano più estremo come farebbe un Eli Roth sotto acidi, allora questo è il film che state cercando.

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