Festival di Roma: Recensione – Genius

Pubblicato il 20 Ottobre 2016 alle 14:49

Il regista teatrale Michael Grandage debutta nel mondo del cinema con Genius, pellicola dal cast stellare ma che rimane impantanata nell’argomento che pretende di trattare.

Gli scrittori sono una sfumatura molto interessante dell’essere umano (lo siamo, non è così? ditemi che lo siamo), eppure l’atto di prendere carta e penna e creare un libro non è esattamente l’argomento più interessante del mondo da prendere in considerazione se vuoi girare un film.

Con Genius, l’esordiente Michael Grandage ha in mente di raccontarci la storia d’intensa simbiosi fra lo scrittore della Carolina del Nord,  Thomas Wolfe (Jude Law), e il suo editor di New York, Maxwell Perkins (Colin Firth).

Ora, nessuno nega il fatto che Wolfe e Perkins siano state due fra le figure più importanti della letteratura mondiale del ventesimo secolo (oltre al lavoro di Wolfe, Perkins pubblicò anche i primi romanzi di F. Scott Fitzgerald e Ernest Hemingway) ma c’è una differenza non proprio sottile fra il teatro e il cinema, e nel passaggio tra una forma d’arte all’altra Grandage probabilmente ha perso di vista questo non proprio piccolo particolare.

Il film, girato con un tono color seppia molto anni ’30, vacilla in continuazione fra il dramma teatrale e quello cinematografico, e non è mai in grado di prendere una posizione.

Nonostante un cast sulla carta invidiabile, Grandage non è aiutato neanche da questo punto di vista (anche se la storia del cinema ci ha insegnato che un attore dà il meglio di se anche grazie al regista, quindi c’è da riflettere): Jude Law, tutto capelli spettinati e grandi urla, gioca sull’accento strascicato del sud marcandolo troppo e dando l’impressione che la lingua del suo personaggio sia sul punto di sciogliersi da un momento all’altro; Colin Firth è cupissimo, come se anche lui fosse stufo di quello che sta facendo, un lavoratore rigido, grigio e con una manico di scopa di due-tre metri infilato su per il beep.

La domanda da farsi è: perché prendere attori britannici (a parte Laura Linney, sono tutti britannici, con Nicole Kidman australiana) per impersonare la quintessenza dello stile americano? Pure Michael Grandage è inglese.

Un po’ meglio Nicole Kidman e Laura Linney, che fanno del loro meglio con ruoli però ingrati e troppo poco interessanti. Promossi invece Dominic West e Guy Pearce, sempre impeccabili e divertentissimi nei camei rispettivamente nei panni di Hemingway e Scott Fitzgerland e che probabilmente danno vita ai (pochi) momenti più divertenti del film.

Il film riesce bene soprattutto nel raccontare l’amicizia dei due protagonisti, ma anche quando Grandage spinge al massimo sull’acceleratore estremizzando il dinamismo (nel senso che da 1 km/h arriva a 5, 6 km/h) il film rimane sempre un film sulla pubblicazione dei libri, e su tutto il lavoro che c’è dietro.

Lo dico col massimo rispetto per quest’arte, che insieme a quella cinematografica popola gran parte della mia quotidianità, ma con tutti i libri che ho tenuto fra le mani nel corso della mia vita non ho mai pensato: “Caspita, chissà com’è nato questo volume, dovrebbero farci un film!”

La sceneggiatura di John Logan vuole sembrare cinematograficamente audace, ma scade nella teatralità incespicando su situazioni insipide e ripetitive.

Jude Law e Colin Firth parlano e ragionano su quali cambiamenti apportare al manoscritto, bevono, fumano, discutono, parlano, bevono, fumano, bevono, parlano, apportano modifiche al manoscritto, bevono, fumano, discutono, bevono, apportano modifiche al manoscritto, fumano.

Nel guardare Genius avrete la sensazione che vi state perdendo la parte migliore della storia dei due personaggi, che si sta svolgendo offscreen, quando uno dei due (o i comprimari) esce dalla stanza e se ne torna alla propria vita. Insomma, una pellicola non così geniale come vorrebbe essere.

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