Cocaine – La Vera Storia di White Boy Rick di Yann Demange | Recensione

Pubblicato il 6 Marzo 2019 alle 15:00

Il film arriverà nei cinema italiani a partire dal 7 marzo.

Sembra ci sia il desiderio di unire una certa matrice da cinema fantastico anni ’80 – più precisamente quello figlio di Steven Spielberg – ai canoni del crime movie alla Martin Scorsese in Cocaine – La Vera Storia di White Boy Rick, col senso di meraviglia e stupore tipico del cinema per adolescenti rimpiazzato dalla rincorsa al denaro, alla scoperta del sesso, della droga, della possibilità che il crimine paghi … o forse no.

Basato sulla storia di Richard Wershe Jr e ambientato in una Detroit di periferia a metà degli anni ottanta, il film racconta del quattordicenne soprannominato White Boy Rick (Richie Merritt), che in seguito ad alcune circostanze divenne un informatore sotto copertura per la polizia locale e per i federali. E mentre si immerge sempre di più nel sottobosco criminale del quartiere, Rick dovrà fare i conti anche con una drammatica situazione familiare, con sua sorella Dawn (Bel Powley) schiava di un fidanzato violento e della droga e suo padre Richard Wershe Senior (Matthew McConaughey), uno spacciatore di armi di seconda mano col sogno di aprire una videoteca.

Nel tentativo di unire il racconto delle gang giovanili alla City of Gods con le atmosfere da ceto medio degli Stati Uniti alla 8 Mile di Curtis Hanson (non c’è solo Detroit a fare da sfondo, ma la stessa storia di un ragazzino bianco che se ne va a spasso con una banda di coetanei afro-americani ricorda molto il film del 2002), il regista francese Yann Demange (al suo secondo lungo dopo l’energico ’71) mette insieme un film con tanta carne al fuoco, che però non si sforza di fare altro se non vivere di momenti (alcuni anche molto riusciti), risultando quasi sempre molto canonico a dispetto di una vicenda che tutto è fuorché canonica: per impostazione e scelte filmiche si tende a rimarcare il lato umano della storia di Rick, non così diversa da tante altre, dimenticandosi però di sottolinearne la componente paradossale, quella sì davvero unica nel suo genere.

In mano a qualcuno come Doug Liman questa sceneggiatura sarebbe potuta diventare una sorta di Barry Seal – Una Storia Americana versione teenager, invece Demange si limita a mettere insieme pezzi di altri film per costruire qualcosa che riesca a stare in piedi per conto proprio; e ce la fa, ma senza mai riuscire a distinguersi.

Dal punto di vista del cast segnaliamo un Matthew McConaughey che continua a riciclare gli atteggiamenti del Rust Cohle del True Detective di Cary Fukunaga, un monumento come Bruce Dern completamente sprecato nel ruolo di suo padre, una Jennifer Jason Leigh del tutto svogliata nel dare corpo ad un personaggio completamente ininfluente ai fini narrativi e infine il Bryan Tyree Henry di Atlanta che dopo il successo della serie di Donald Glover è praticamente ovunque.

Ancora una volta ci viene raccontato che è l’ambiente in cui un individuo è calato a formare quell’individuo, che da quell’ambiente non uscirà mai e anzi ne diventerà sempre più una componente indissolubile, come una formica finita nelle sabbie mobili: non è la prima volta che il cinema ci mette di fronte a questa verità, e di certo non sarà l’ultima.

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