Se La Strada Potesse Parlare di Barry Jenkins | Recensione

Pubblicato il 5 Febbraio 2019 alle 18:00

Il nuovo film di Barry Jenkins è attualmente in programmazione nei cinema italiani.

C’è un’epica soffusa e delicata, calda e soffice come un brano jazz nell’impostazione che Barry Jenkins conferisce al suo nuovo lungometraggio, Se La Strada Potesse Parlare, atteso ritorno del regista che due anni fa strappò consensi (meritatissimi) e soprattutto premi (molto meno) con l’opera prima Moonlight: meno episodico del film con Mahershala Ali ma anche meno focalizzato, questo Jenkins 2.0 vuole andare in molte direzioni, dal dramma sentimentale a quello da tribunale, da storia di formazione verticale ad orizzontale racconto della quotidianità, ma finisce col perdersi un po’ qui e un po’ lì: forse se ne accorge anche lui, perché ogni volta che rischia la deriva torna al fulcro del suo film, rappresentato dai suoi due protagonisti e dal legame che li unisce, ed è dentro di loro che trova la forza necessaria per chiudere un film che è sì piccolo, in termini di ambizioni e tematiche, ma comunque significativo e risonante.

Tratto dal seminale romanzo del 1974 dello scrittore afro-americano James BaldwinSe la strada potesse parlare, è ambientato nella New York degli anni anni ’70, anzi nella Harlem degli anni ’70, e racconta la tragica storia d’amore tra la diciannovenne Tish (KiKi Layne) e il ventiduenne Alonzo, detto Fonny (Stephan James): cresciuti insieme e amici fin da sempre, crescendo i due si sono resi conto che l’affetto che li univa mano a mano è diventato attrazione, e quell’attrazione è diventata amore.

Oggi i due sognano un futuro insieme, ma è apparentemente impossibile declinare quel sogno nel mondo reale quando la società in cui vivono è un incubo così tangibile. Un giorno, infatti, Fonny viene ingiustamente arrestato per un crimine che non ha commesso, e Tish, che ha da poco scoperto di essere incinta di lui, dovrà trovare un modo per scagionarlo, con il sostegno incondizionato di amici, della sorella maggiore e dei propri genitori.

Ma senza più un compagno al suo fianco, la ragazza si ritrova da sola di fronte all’inaspettata prospettiva della maternità: le settimane diventano mesi, la pancia cresce e il bambino scalcia, desideroso di entrare a far parte di un mondo che forse non si merita e che non prevede un posto per lui.

Non c’è una sola strada in Se La Strada Potesse Parlare quanto tantissimi piccoli, brevi sentieri che Jenkins tenta di seguire ma di cui poi perde il filo, dall’indagine del tribunale al viaggio di Sharon (Regina King), dai furti dei due padri di Tish e Alonzo al ruolo di Daniel (il Brian Tyree Henry di Atlanta), con goffaggini davvero troppo evidenti (un Dave Franco deus ex machina proto-hippy abbastanza risibile, tanto quanto l’agente Bell di Ed Skrein, malvagio e diabolico più dell’Ajax/Francis che l’attore interpretava in Deadpool).

Ma è questo volersi protendere di continuo per poi retrocedere e racchiudersi in se stesso a decretare la peculiarità di un’opera che riflette sull’impossibilità di trovare un posto nel mondo, di avere un po’ di pace, di poter vivere la propria vita con quel minimo di dignità che spetta di diritto a ciascuno: ed è nell’orchestrazione dei primi piani, lenti, folgoranti e vibranti dei due amanti che si guardano l’un l’altro che Jenkins la riscontra, trovando in essi una confort zone nella quale riparare per sapersi indistruttibile.

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