Il Castello di Vetro di Destin Daniel Cretton | Recensione

Pubblicato il 7 Dicembre 2018 alle 20:00

Il film è in programmazione nei cinema italiani.

Prima di vederli in Captain Marvel e nel sequel di Venom rispettivamente nei panni di Carol Danvers e il temibile villain Carnage, Brie Larson e Woody Harrelson giocano a fare la famigliola più o meno allegra (ma disfunzionale all’ennesima potenza) ne Il Castello di Vetro, nuovo film di quel Destin Daniel Cretton che già nel 2013 aveva fatto vedere buonissime cose con Short Term 12, sempre con la Larson nel ruolo da protagonista.

Insieme a loro, in questo adattamento del famoso best-seller di Jeannette Walls, anche la due volte candidata al premio Oscar Naomi Watts nel ruolo di Rose, moglie di Rex (Harrelson) e mamma della protagonista (Larson): Cretton riesce quasi sempre a rendere appassionante la drammatica e ispiratrice vera storia della Walls, con leggeri cali di ritmo e alcune ripetitività che come granelli di polvere nascosti sotto al tappeto vengono ben celati dalle performance eccezionalmente potenti dei tre attori, con Harrelson e la Watts in versione hippy barra bohémien volontariamente poveri e la Larson nello scomodo ruolo di seconda dei quattro figli che i due squinternati genitori hanno costretto ad una vita peripatetica e nomade.

Al centro della storia ci sarà sempre il personaggio di Jeannette, sia in versione adulta che in varie altre fasi della vita, vero e proprio pianeta intorno al quale ruoteranno a turno tutti gli altri personaggi (i genitori in primis, ma anche le due sorelle, il fratello e il fidanzato, questi ultimi maggiormente sacrificati nella caratterizzazione e nello sviluppo), in un continuo andirivieni fra presente e passato col montaggio che gestisce bene tanto i flashback quanto lo storytelling di Cretton.

Partendo dalla autobiografia di Jeannette, Cretton e il suo co-sceneggiatore, Andrew Lanham, si frappongono fra la donna e la figura paterna per comprenderne il rapporto fatto di ambivalenze, affetto e dissidi: l’uomo, scaltro e geniale (“la persona più intelligente che conosca” dirà sua figlia, con una punta di rammarico) si attacca alla bottiglia con lo stesso vigore col quale dà contro al capitalismo, al degrado ambientale, al razzismo, al sistema sanitario e più in generale all’ipocrisia della società in tutte le sue forme: a volte è un padre incredibilmente tenero, che regala stelle e pianeti ai figli e che racconta storie meravigliose su fatti conosciuti solo da persone straordinariamente acculturare e curiose, mentre altre è semplicemente un ubriacone violento e dai modi rozzi e spaventosamente tirannici.
Molte dinamiche familiari – nel corso di una storia che copre un lasso di tempo molto ampio, dalla fine degli anni ’60 all’inizio dei ’90 – si perdono o vengono volontariamente tralasciate, con la trama che da racconto di formazione vira nel regno dello studio caratteriale dei suoi personaggi principali. si perdono mentre la trama vira nel regno di studio del personaggio. A prescindere dai squilibri e dai suoi difetti, comunque, Il Castello di Vetro trova un buon equilibrio tra emotività e riflessione, ed è difficile non affezionarsi alla famiglia Walls.

Soprattutto per merito di Cretton, che non scade mai nell’errore tipico di questi racconti incentrati sul nomadismo volontario. Tipicamente, ci sono due modi per raccontare queste storie e questi personaggi, e come in tutte le cose ce n’è uno sbagliato e uno giusto: quello sbagliato, oltre ad essere pedante, contribuisce ad alzare un muro fra spettatore e protagonista, o perché il personaggio è troppo stupido per essere credibile (Into the Wild) o perché troppo arrogante (Captain Fantastic), mentre il secondo funziona perché spettatore e protagonista si avvicinano; storie come Corvo Rosso Non Avrai Il Mio Scalpo, o anche il recente (e più bello) Senza Lasciare Traccia, ci raccontano di persone che vivono ai margini della società non per un mal riposto senso di superiorità, snobismo o fantasmagorica credenza new age, ma perché quella società la temono, ne sono terrorizzati, hanno demoni dai quali fuggire e vergogne da tenere nascoste.

E’ così per il padre alcolizzato di Jeannette: ha scelto quello stile di vita non perché la reputa migliore rispetto a quella che conducono le persone normali, ma perché la ritiene l’unica che si merita.

Il personaggio di Jeannette, costretto ad assumere tratti genitoriali fin da una tenera età – per sopperire alle mancanze di mamma e papà nell’accudire i suoi fratelli minori – viene esaltato non solo dalla Larson, ma anche dalle interpretazioni eccezionalmente empatiche di Chandler Head (Jeannette all’età di otto anni) ed Ella Anderson (Jeanette all’età di undici anni): tutto è narrato dal suo punto di vista, e di conseguenza si possono perdonare al film le tante dimenticanze nei confronti degli altri fratelli, che alla meglio sono dipinti come meri dettagli sullo sfondo dell’autoritratto della protagonista, mentre alla peggio vengono troncati in modo goffo: per esempio è molto bello come si provi ad analizzare lo stato emotivo della sorella più piccola, Maureen (Brigitte Lundy-Paine), ma a quella sotto-trama, che forse avrebbe meritato un film a se stante, si allude solamente, e la prova dell’attrice sembra quanto mai contratta.

Ma, in generale, Il Castello di Vetro procede con una fluidità piuttosto decisa, spostandosi di epoca in epoca come i Walls con i loro accampamenti. Brett Pawlak, già dop di Short Term 12, sembra trovarsi particolarmente in sintonia con Cretton, e lo stesso dicasi per Nat Sanders, che già in Moonlight aveva dato prova di saper navigare fra linee temporali differenti. Tutti gli aspetti dell’impianto filmico lavorano in sincronia fra loro e sono sempre al servizio dello stato d’animo della protagonista, con le scenografie di Sharon Seymour che enfatizzano i sentimenti con il grado di caos del contesto.

Il problema è semmai proprio questa continua necessità di esporre i propri simboli e sotto-testi, questo non richiesto bisogno di rendere esplicito l’implicito, privandolo così di quella forza primordiale che altrimenti avrebbe avuto. Ma nonostante questo non arriva mai a frantumarsi il castello di vetro che è Il Castello di Vetro, restando fino alla fine sempre cristallino, genuino e scolastico, in un senso positivo.

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