Nella Tana dei Lupi di Christian Gudegast | Recensione in anteprima

Pubblicato il 4 Aprile 2018 alle 20:00

Il film sarà in programmazione nelle sale italiane dal 5 aprile 2018.

E’ sempre bello quando delle basse aspettative vengono ribaltate trasformandosi in piacevole sorpresa, e una delle cose che Nella Tana dei Lupi riesce a fare è proprio quella di sorprendere piacevolmente.

I campanelli d’allarme c’erano tutti: da Gerard Butler (negli ultimi anni il suo nome è sempre andato a braccetto con produzioni quasi totalmente fallimentari) alla presenza di 50 Cent, dal trailer fanfarone alla scelta azzardata di affidare il progetto ad un regista esordiente (Gudegast sceneggiò il thriller vendicativo Il Risolutore di Felix Gary Grey con Vin Diesel nel 2003, dopo di che l’altra nota nel suo curriculum è il brutto Attacco al Potere 2, sempre in fase di sceneggiatura: ma è grazie al film di Babak Najafi che avrebbe conosciuto Butler), eppure in definitiva Nella Tana dei Lupi si dimostra essere molto più di quello che era lecito pensare che fosse, e come Catherine Zeta-Jones in Entrapment di Jon Amiel quei dannatissimi campanelli d’allarme riesce a schivarli tutti, uno dopo l’altro. E pure con una certa eleganza.

Tenendo bene in mente (e nel mirino) il cinema programmatico di Michael Mann (Heat è chiaramente il punto di riferimento per Gudegast) Nella Tana dei Lupi racconta una semplice storia di guardie e ladri, della rapina dei cattivi e delle contromisure dei buoni per impedire quella rapina, di pianificazione, ma soprattutto di confini sottilissimi a separare i protagonisti (i cattivi raccontati come fossero buoni, i buoni descritti mettendone in risalto i numerosi difetti).

Gerard Butler e Pablo Schreiber (lui si, invece, che è sempre più sinonimo di qualità) sono al comando rispettivamente dell’unità speciale della polizia di Los Angeles e del gruppo di rapinatori di banche che i primi devono acciuffare: il film segue i due personaggi passo dopo passo, giocando sull’anticipazione dell’inevitabile confronto finale (una bellissima scena che parte da un calco di quella ambientata al casello del confine messicano vista in Sicario, accumulando la suspance come faceva Villeneuve ma prendendo poi tutta un’altra direzione e declinare quella materia verso la forma dell’action puro).

Il pregio del film, come detto insospettabile alla vigilia, è che per arrivare a quel confronto finale non ci si scapicolla a perdifiato con l’azione coatta, ma lungo il percorso ci si ferma spesso a prendere fiato, a ragionare: scivoliamo all’interno della quotidianità dei personaggi, scopriamo le loro vite, ascoltiamo i loro piani (la prima ora è molto distesa, la seconda è invece occupata dalla rapina vera e propria e non ci saranno tempi morti), il tutto mentre si gioca con gli stereotipi e i cliché classici del genere, ma con estrema consapevolezza e soprattutto senza vergognarsi di farlo.

Butler qui ritorna finalmente perfetto com’era perfetto negli abiti spartani di re Leonida di 300, e nella parte di “Big Nick” O’Brien, questo sbirro sboccato, violento, pericoloso, che puzza peggio dei criminali cui deve dare la caccia, riassume quello stesso senso cinematografico che aveva nel film di Zack Snyder e che raramente ha raggiunto in seguito (solo in RocknRolla di Ritchie, ma Gerard Butler deve avere la barba per essere Gerard Butler al cento per cento).

Infine, a differenza del simbolismo astratto che è il fondamento dei film di Michael Mann, qui i personaggi sono in tutto e per tutto umani, non elevati a emblemi o rappresentazioni di pregi e difetti della razza umana. Anche per questo il film risulta vincente: perché ha un’anima cruda e rozza e non aspira mai alla trascendenza, ma rimane ancorato saldamente al suolo, all’asfalto, dove vanno a posarsi i bossoli dei proiettili, dove cola il sudore e dove gocciola il sangue.

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