The Greatest Showman di Michael Gracey | Recensione

Pubblicato il 29 Dicembre 2017 alle 15:00

Sulla scia del successo ottenuto da Lionsgate e Summit Entertainment con La La Land, la 20th Century Fox lancia sul mercato un musical preincartato e zuccheroso sulla controversa figura di Phineas Taylor Barnum, l’uomo che inventò il circo itinerante.

Non c’è assolutamente niente di grande nello spettacolo offerto da The Greatest Showman, film piuttosto modesto messo insieme da Michael Gracey e Bill Condon (molto meglio nel ruolo di regista nel seppur modesto remake live-action di La Bella e La Bestia che qui in sceneggiatura) che aveva diversi obiettivi – primi fra tutti fare soldi sulla scia del successo di La La Land, proporre al pubblico qualche bel singolo da ascoltare a profusione su Spotify e valorizzare i tanti talenti di Hugh Jackman con la speranza di proiettarlo verso i prossimi e imminenti Oscar – ma che ha praticamente fallito su tutta la linea – con quasi cento milioni di budget ne ha incassati poco più di 30, i temi musicali verranno dimenticati appena usciti dal cinema e Jackman, al di là della nomination ai Golden Globes, a dir poco regalata, gli Oscar probabilmente se li vedrà da casa – proponendoci una delle più scottanti delusioni del 2017 proprio in tempo per la fine dell’anno.

Da un film in lavorazione dal 2009 del resto era lecito aspettarsi molto ma molto di più, e invece alla fine sono davvero poche le cose che vale la pena salvare: con una sceneggiatura che altri definirebbero imbarazzante (per citare una battuta del risibile critico con occhialini e barbetta interpretato da Paul Sparks) ma che noi ci limitiamo ad etichettare come frettolosa, una CGI più pesante dei baffi-non-baffi di Henry Cavill in Justice League (che può anche passare se usata a profusione per gli sfondi delle ambientazioni, ma che diventa davvero insopportabile, quasi nauseante, negli stacchi musicali), una metafora stucchevole da tasso glicemico fuori scala sull’amore per la diversità e l’accettazione del freak (proprio in questi giorni in sala c’è Wonder ed è impossibile preferire questo film a quello interessantissimo diretto da Stephen Chbosky) e in generale pochissime idee visive che valga la pena definire tali (bello il duello di ballo fra Jackman ed Efron nel bar, ma tolto quello che altro resta?) The Greatest Showman crolla su stesso con la stessa facilità con la quale si smonta un tendone per il circo.

P. T. Barnum è un ragazzino di umili origini che sogna in grande (tanto in grande che riesce a immaginarsi nei panni di Hugh Jackman anche quando ha dodici anni e un aspetto totalmente diverso) ed è sempre pronto ad inseguire il primo sogno che gli capita a tiro. Il suo primo sogno è Charity, la figlia del ricco e antipatico datore di lavoro di suo padre, che il nostro riesce a strappare agli agi e ai lussi della sua vita per portarla a vivere con se nella speranza di una vita più felice. La felicità c’è ma manca il danaro per comprarsi da mangiare, quindi il nuovo sogno di Barnum diventa quello di mettere insieme il più grande spettacolo del mondo riunendo le persone più inquietanti e strane d’America (un Napoleone affetto da nanismo, la donna barbuta, un Chewbacca, un Zac Efron e Zendanya, che più ci penso e più mi viene da chiedermi come e perché dovremmo considerarla una freak al pari del Gigante Irlandese o l’uomo da 750 libbre).

E così nasce il circo. Nasce lo showbusiness. Si balla. Si canta. E poi si torna a casa. In mezzo più o meno il nulla, eccetto un antipaticissimo protagonista impersonato da un attore supersimpatico al quale tutti noi vogliamo un gran bene (e infatti Barnum è un po’ vile e un po’ meschino, ma solo un po’, mai del tutto, e questo dà ancora più fastidio) e la coppia Z-Z (Zendanya e Zac Efron) che funziona e sembra sempre ben assortita ma che arrivata verso l’ultimo atto avrà messo a dura prova le vostre scorte d’insulina.

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