Recensione – Codice Criminale, di Adam Smith

Pubblicato il 28 Giugno 2017 alle 20:00

Michael Fassbender e Brendan Gleeson sono i protagonisti del film d’esordio di Adam Smith.

Già all’epoca della proiezione all’interno della sezione Special Presentations del Sundance Film Festival 2016, Codice Criminale non aveva ricevuto critiche esattamente positive. Anzi, in molti si erano addirittura chiesti come e perché un film tanto anonimo e mediocre fosse riuscito a rientrare nella selezione ufficiale di un festival cinematografico così prestigioso.

Dopo aver visto il film, l’unica risposta che mi sento di dare è: Michael Fassbender.

L’attore nato a Heidelberg, fin dall’esordio in 300, ha costruito la sua carriera barcamenandosi fra blockbuster e produzioni con più spiccate ambizioni artistiche, inanellando una serie di successi che gli sono valsi numerosi riconoscimenti, fra i quali vanno menzionate anche le due nomination agli Oscar e le tre ai Golden Globe.

Ma fra quei blockbuster e quei progetti più ambiziosi, di tanto in tanto nella filmografia dell’attore compare anche qualche macchiolina (e no, non voglio parlare di Song to Song, anzi, fingiamo che quel film non sia mai esistito). Codice Criminale è forse la macchiolina più evidente.

Non perché nel crime-drama di Smith Fassbender abbia dimenticato improvvisamente come si fa a recitare, ma perché semplicemente non ha nulla a che fare col mondo low-life dipinto nel film. E’ troppo bello, troppo fico, troppo elegante per vivere in un campo nomade che è il fulcro di Codice Criminale, e in mezzo ai suoi compagni vagabondi anglo-irlandesi il personaggio di Fassbender è più fuori contesto del David di Michelangelo in una mostra di arte futurista.

Al contrario Brendan Gleeson (che interpreta il padre del protagonista) dà corpo ad una bella quanto difficile interpretazione: il suo personaggio, leader del gruppo nomade, è forse una delle persone più ignobili che abbiano mai messo piede nell’Inghilterra rurale rappresentata dal regista, bieco e manipolatore e opportunista. Lo scontro generazionale col figlio purtroppo non regge, per via del casting sbagliatissimo di Fassbender.

Proprio come l’auto guidata da Fassbender si insinua in un vicolo stretto per sfuggire alla polizia, il film vorrebbe infilarsi nello spazio che separa il Drive di Refn da Snatch di Ritchie, ma manca tanto dell’affascinante artisticità del primo quanto della spregiudicatezza ritmica del secondo. La regia di Smith, maturata fra qualche lavoro in televisione e qualche impiego nel mondo dei videoclip musicali (è un collaboratore dei Chemical Brothers, qui reclutati per la colonna sonora), si limita a proporre giusto qualche bell’inseguimento (anche abbastanza scolastico) senza mai sussultare a livello artistico o tecnico, mentre la sceneggiatura di Siddons manca di credibilità, pathos e personaggi interessanti.

L’unico motivo che resta per andare a vedere il film è Fassbender, ma se siete suoi fan sappiate fin da subito che lo troverete ai suoi minimi storici (non per colpa sua). Altrimenti una cena da McDonald’s costa meno e probabilmente è in grado di offrire maggiori stimoli intellettuali.

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