La Saga dei Bojeffries, il fumetto satirico di Alan Moore [Recensione]

Pubblicato il 1 Agosto 2016 alle 11:25

Esiste una famiglia che vive in un tipico contesto inglese. Tutto normale? Niente affatto, specialmente se la famiglia in questione è la protagonista di una delle opere più deliranti, spiazzanti e divertenti di Alan Moore! Non perdete la saga dei Bojeffries, proposta in Italia da Bao Publishing!

Che Alan Moore sia un autore inclassificabile è noto a tutti. Nel corso della sua straordinaria carriera ha toccato diversi generi narrativi, sempre in maniera personale, e ha realizzato opere sia nei tipici contesti editoriali di major come la DC, sia in altri che potremmo definire indipendenti, se non addirittura underground.

Agli inizi della sua attività ebbe modo di pubblicare parecchi lavori sulla rivista Warrior, sperimentando in continuazione. The Bojeffries Saga rientra in questa categoria di esiti creativi.

Di solito quando si pensa al Bardo di Northampton vengono subito in mente atmosfere narrative cupe e drammatiche, non prive di impegno politico.

Inoltre, la sua attitudine polemica ha contribuito a costruirgli un’aura di persona ombrosa e seria. Tuttavia, coloro che conoscono e frequentano personalmente Moore l’hanno descritto come un individuo dotato di uno straordinario senso dell’ironia, tipicamente britannico.

The Bojeffries Saga è un esempio significativo dell’umorismo del Magus. Il fumetto infatti è divertente e spassoso ma al contempo è una spietata satira della Gran Bretagna thatcheriana (almeno nei primi episodi della serie).

Il volume in questione include tutto il materiale dedicato agli strampalati protagonisti della collana ma c’è anche un’avventura realizzata in tempi più recenti che rivela il destino dei personaggi.

La famiglia Bojeffries vive in Gran Bretagna ma non è esattamente convenzionale. Il padre, Jobremus, è un licantropo e ha due figli, Ginda e Reth. La prima è una ragazza grassa e mostruosa che ha però una forte autostima e notevoli appetiti sessuali e per giunta la tendenza a compiere atti a dir poco ributtanti; Reth è a sua volta un licantropo non particolarmente sveglio.

Ci sono poi gli zii Raoul e Festus, rispettivamente un altro licantropo che divora barboncini e un vampiro che si esprime in una lingua incomprensibile.

Ma non sono nulla paragonati al capostipite dei Bojeffries, il nonno Podslap, una mostruosità ectoplasmatica degna di Lovecraft e dal carattere poco accomodante, e a un neonato relegato in uno scantinato in grado di produrre energia termonucleare.

Costoro vivono tutti insieme in un appartamento e sono protagonisti di avventure folli e spassose. Moore, tuttavia, non si limita a delineare vicende comiche ma usa la comicità come pretesto per dare giudizi sferzanti sulla Gran Bretagna che, da un certo punto di vista, non è affatto cambiata dai tempi della Thatcher.

Il Regno Unito dei Bojeffries è un paese grigio e sporco, oppresso dalla burocrazia, simboleggiata dal signor Inchmale, un buffo funzionario statale che fa una brutta fine; dal razzismo nei confronti degli immigrati; dal consumismo e dal materialismo sfrenati; da un’informazione inefficace (Moore se la prende, in particolare, con il Sun e il Guardian); dalla tv spazzatura (e l’episodio incentrato su Raoul che partecipa ai provini del Grande Fratello è uno degli esempi di satira più crudele mai fatta da Moore).

Nella saga dei Bojeffries, in pratica, non si salva nessuno: poliziotti, padri di famiglia, predicatori, uomini, donne, bambini, sono tutti parte di un immenso manicomio chiamato Gran Bretagna che sembra concepito dai Monty Python.

E lo spirito irriverente dei Monty Python è evidente in The Bojeffries Saga, specialmente in battute al fulmicotone come questa: ‘Dove andiamo quando moriamo?’ ‘Andiamo a fanculo!’. Il volume è pieno di dialoghi simili e anche in questa occasione Moore dimostra tutta la sua inventiva di scrittore.

Utilizza giochi di parole, termini gergali, chiosa poesie e testi di canzoni, opta per sperimentazioni linguistiche alla Carroll e alla Joyce. Un episodio è scritto come se si trattasse di un libretto d’opera. Un altro è composto solo da immagini e didascalie.

A dare forma visiva all’universo impazzito dei Bojeffries è l’ottimo Steve Parkhouse, penciler che si era messo in luce alla Marvel negli anni sessanta con Nick Fury Agent of SHIELD e altri comic-book dell’epoca e che in seguito tornò in Gran Bretagna, occupandosi di fumetti più alternativi.

Il suo stile è grottesco e caricaturale, senz’altro appropriato per una serie del genere, e le sue figure contorte e sgraziate risultano decisamente efficaci. Gli sfondi delle vignette sono accurati e spesso valorizzati da dettagli infinitesimali.

Parkhouse ricorre a una composizione tradizionale della tavola, contrassegnata da vignette minuscole, ma di tanto in tanto si concede inquadrature più ampie, rendendo quindi la lettura molto varia da una prospettiva visuale.

L’episodio conclusivo, inoltre, è impreziosito da chiaroscuri suggestivi che gli conferiscono un tocco di raffinatezza. Insomma, questo è un volume da non perdere ed è consigliabile ovviamente ai fan del più importante autore di comics a livello mondiale ma pure a coloro che cercano una lettura diversa dal solito.

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