Macbeth: poesia filmica nell’eccentrico esercizio di stile di Justin Kurzel

Pubblicato il 7 Gennaio 2016 alle 17:00

Il regista australiano Justin Kurzel presenta Macbeth, versione cinematografica dell’omonima tragedia shakespeariana. Brutale e poetico, il film va incoronato come il miglior adattamento delle opere del Bardo?

Una bella giornata così brutta non l’avevo mai vista

Il film (o meglio, l’opera) si apre con una sequenza senza battute che non compare nella tragedia originale, ma che risulta ottimale e magnificamente orchestrata per suggerire lo stato psicologico dei due protagonisti, offrendo una chiara chiave di lettura per ciò che succederà in seguito.

I puristi non temano: la sceneggiatura di Jacob Koskoff, Michael Lesslie e Todd Louiso non si prende libertà dalla pièce di William Shakespeare, anzi ci si aggrappa con forza e si nutre di essa (“Ecco il mio seno di donna: succhiatene il latte in cambio di fiele, voi ministri del crimine”), lasciandosi corrompere dal suo immortale e geniale fascino.

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L’orrore del reale è nulla contro l’idea dell’orrore

Kurzel decide di mostrare anche le scene che nella tragedia teatrale vengono descritte dal narratore (la battaglia iniziale, l’uccisione della famiglia di Macduff), il che conferisce al personaggio di Macbeth una perfidia ancora più demente e nera.

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La fotografia è sporca e luminosa al tempo stesso, piena di cenere e raggi di luce che filtrano tra le nuvole o la nebbia. Il fuoco, il fumo, sono elementi ricorrenti, che anticipano la caduta, e che si tratti di un campo di battaglia, una palude infestata dai fantasmi, un accampamento battuto dalla pioggia o le opulente stanze del palazzo regale, l’atmosfera è sempre opprimente, soffocante, con una colonna sonora che ci accompagna dall’inizio alla fine tramite melodie eccitanti e struggenti.

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Per quanto quest’opera sia tecnicamente perfetta, ancor più sublimi sono le interpretazioni (da Oscar?) di Michael Fassbender (candidato all’Oscar per 12 Anni Schiavo) e Marion Cotillard (vincitrice del premio Oscar per La Vie en Rose nel 2008 e candidata nuovamente nel 2015 per Due Giorni, Una Notte), che brillano di un’insania febbricitante percorrendo però due strade ben distinte.

Prendi l’aspetto del fiore innocente, ma sii la serpe che sotto di esso si nasconde

Lady Macbeth spinge il marito a compiere atti orribili, ma si pente e il pentimento la porterà alla morte. Suo marito, invece, inizialmente turbato e nient’affatto convinto del misfatto che sua moglie trama, finisce in una spirale di violenza dal quale non riesce più ad uscire. Non che lo desideri, anzi: ne sembra attratto sempre più.

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Il film di Kurzel è volutamente criptico e aperto all’interpretazione. Non ci sono tre streghe, come nella tragedia originale, ma quattro (cinque, se si conta il neonato che una di loro porta in braccio) – e una delle quattro streghe è una bambina che non parla mai.

Fassbender ha dichiarato, durante una delle tante interviste promozionali, che il suo Macbeth è un uomo travagliato da immaginare alla stregua di un guerriero che soffre di stress post traumatico. E a giudicare dalla ferocia della battaglia iniziale – durante la quale cominciano le “visioni” – è proprio così: l’uccisione di Duncan, poi, e le barbarie che a questa seguiranno (l’ordine di assassinare Banquo e suo figlio, la moglie e i figli di Macduff arsi vivi sul rogo) gravano sulla psiche del personaggio, uno dei più celebri anti-eroi della storia della letteratura.

Io oso fare tutto ciò che può esser degno di un uomo. Chi osa di più non lo è.

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La trasformazione del personaggio è il massimo esempio di passaggio al lato oscuro, archetipo di brama di potere e avidità: risalta come i termini “prode e valoroso”, entrambi usati dal re in persona per salutarlo in una delle prime scene del film, vengano finemente giustapposti alla parola “tiranno”, pronunciata con ardente odio dalla moglie di Macduff poco prima di morire.

Macbeth è l’uomo corruttibile che si lascia incantare dal peccato. La corona è la mela proibita, e Lady Macbeth il serpente che sussurra, invoglia, tenta.

Mi batterò, finché dalle mie ossa non si stacchi la carne a brandelli. A me l’armatura

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Geniale anche la realizzazione della profezia del bosco di Birnan: nella tragedia i soldati si vestono dei rami degli alberi, e avanzando verso il castello preso d’assedio è come se fosse il bosco ad avanzare, come avevano predetto le streghe. In questo film, così dark, sarebbe risultato quasi parodistico mostrare i soldati procedere acquattati e travestiti da alberi.

Così si è pensato di “spostare” il bosco di Birnan dandogli fuoco, e lasciare che fossero il fumo e la cenere a muoversi verso il castello di Macbeth. L’idea è sorprendente e azzeccatissima per i toni dell’opera, che come detto spesso sono soffocati da un costante velo di nebbia/foschia, tutti elementi che stanno a rappresentare i fumosi dubbi ed incertezze del protagonista.

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Sono stati tantissimi gli adattamenti di questa tragedia: registi del calibro di Orson Welles, Roman Polanski, perfino Akira Kurosawa si sono misurati con la cupa e sanguinosa opera del Bardo. E Amleto, Romeo e Giulietta, Il Mercante di Venezia, Sogno di una Notte di Mezza Estate e tutti gli altri si sono succeduti nei cinema e nelle televisioni di tutto il mondo praticamente da quando il cinema e la televisione esistono, riproponendosi ciclicamente sotto nuove vesti per ogni nuova generazione.

Ma l’opera di Justin Kurzel è così terribilmente bella, così capace di evocare terrore, angoscia, malinconia, confusione ed incertezza, che non è solo la più fedele ricostruzione di questa tragedia, ma anche uno dei migliori adattamenti shakespeariani mai concepiti dalla settima arte.

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La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, significante niente.

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