Fury – Recensione

Pubblicato il 4 Giugno 2015 alle 13:56

Aprile 1945. Gli Alleati si spingono nel cuore della Germania nazista incontrando una resistenza fanatica scatenata dalla disperazione di Hitler. I carri armati americani sono superati rispetto ai più avanzati carri tedeschi e continuano a subire numerose perdite. Il giovane dattilografo Norman viene suo malgrado assegnato ad una squadra di carristi guidata dal durissimo sergente Don ‘Wardaddy’ Collier.

Fury poster

Guardando Fury appare chiaro il motivo per cui la Warner ha deciso di affidare il film sulla Suicide Squad a David Ayer. Non solo i cinque carristi protagonisti di Fury formano appunto una squadra potenzialmente suicida ma risultano anche evidenti alcune influenze fumettistiche, in particolar modo da Garth Ennis. In effetti, il film richiama fortemente per trama, tono e caratterizzazione dei personaggi alcune storie belliche dell’autore nordirlandese, quali Il Tiger di Johann, in apertura dell’antologia War Stories, e Carristi, terzo volume di Battlefields. Il titolo stesso sembra citare l’omonima miniserie Marvel scritta sempre da Ennis.

La relazione tra i cinque protagonisti sorregge tutto il film grazie alle memorabili performance degli interpreti. Logan Lerman (Percy Jackson 1 e 2, I tre moschettieri, Noah) è il giovane dattilografo col quale il pubblico empatizza entrando con lui, inesperto ed impacciato, nello sgangherato carro armato guidato da quattro commilitoni sporchi, brutti e cattivi ma profondamente umani.

Brad Pitt torna ad essere bastardo senza gloria, spietato e rancoroso verso i nazisti. Shia LaBeouf, raramente così intenso, è il religioso del gruppo che cerca di conciliare la sua fede col suo ruolo di soldato; e poi Jon Bernthal (The Walking Dead), il più brutale del gruppo e poi c’è Michael Peña, attore feticcio di Ayer. La novità sta nel dipingere gli americani come i cattivi invasori della situazione e il popolo tedesco come vittima. Basti la scena thrilling con le due ragazze tedesche, uniche presenze femminili del film.

Il regista riesce qui a mescolare il genere bellico più drammatico e realistico, sullo stile di Salvate il soldato Ryan, a quello più ludico e d’intrattenimento in un mix perfetto. La regia ci scaraventa dentro città disastrate e campagne nebbiose e fangose, tra scene di battaglia spettacolari con proiettili che schizzano sembrando i laser di Star Wars e qualche dettaglio splatter per il guilty pleasure del pubblico. Bellissima la straniante fotografia del combattimento finale con un epilogo che ancora mostra i tedeschi come umani e non come mostri.

La guerra che trasforma anche l’uomo più mite in uno spietato assassino. I commilitoni che diventano una famiglia severa a cui non ci si può affezionare troppo. Un carro armato come unico luogo da chiamare casa. I nemici che non sono mostri ma esseri umani. David Ayer ci mostra tutto questo senza retorica, senza scadere nei cliché del genere e senza i consueti americanismi. Confeziona invece due ore e un quarto di ottimo cinema, serrato ed avvincente con degli interpreti in stato di grazia.

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