The War – Il Pianeta delle Scimmie: Matt Reeves e il blockbuster d’autore

Pubblicato il 18 Luglio 2017 alle 14:00

Ape-Pocalypse Now. And forever.

Una delle tante (tantissime) immagini emotivamente destabilizzanti che troverete in questo film e che più è rimasta impressa nella mia corteccia celebrale arriva verso la fine del film, ed è un totale. Senza spoiler, basti dire che Cesare scoprirà definitivamente la vera natura umana, quando una marea di soldati esulterà trionfante e all’unisono per la morte di altri umani.

Cesare non dice niente, né diranno niente le altre scimmie che come lui assistono a tale barbarie, ma dal suo volto, dalla sua espressione, dai suoi occhi, il pubblico può capire cosa sta pensando. “Scimmia non uccide scimmia … ma umano uccide umano”.

E mentre, pian piano, le scimmie si rendono conto della brutalità degli esseri umani, il pubblico al cinema si rende conto che, arrivati alla fine del terzo film della saga, ha smesso già da tempo di tifare per gli umani. Il pubblico parteggia per le scimmie. Perché nessuno, nel pubblico, vuole essere come gli umani descritti dal film. Meglio passare dalla parte delle scimmie.

Con The War – Il Pianeta delle Scimmie, Matt Reeves ha girato uno dei film più sofisticati del XXI secolo, concludendo la storia di uno dei protagonisti meglio scritti di sempre e contemporaneamente stabilendo un nuovo standard qualitativo per i blockbuster del futuro. In un’era di universi cinematografici eretti su ambizioni economiche più che artistiche, qui la visione del regista è chiarissima e il film è un superlativo (e ormai rarissimo) esempio di perfetta amalgama fra produzione cinematografica popolare e tecnica inventiva.

Per certi versi siamo all’esatto opposto dell’altro eccezionale blockbuster degli ultimi anni, Mad Max: Fury Road, ed essendo il suo esatto opposto The War raggiunge un opposto livello di perfezione: dove Fury Road era spasmodico, The War è disteso; dove Fury Road era esplosivo, The War è contemplativo; dove Fury Road era caldo e coloratissimo, The War è candido e freddo, glaciale.

E come in Miller, anche qui Reeves sfrutta la storia come una sorta di cavallo di troia per arrivare al cuore di tematiche delicatissime, come il razzismo, la stratificazione sociale, la compassione, l’odio e la vendetta, il maltrattamento animale, l’amore, la pazzia, la coscienza di se e della propria natura. Non vi aspettate esplosioni a gogo, sparatorie e inseguimenti nei boschi; se possibile, ci sarà ancora meno azione rispetto al precedente capitolo. La Guerra che campeggia nel titolo è soprattutto una guerra esistenziale, la guerra personale della natura ambivalente che alberga in ognuno di noi, e in questo senso il film è molto più western che war-movie.

Cesare è Mosé, è Spartaco, ma è anche Ben Willard, il protagonista del qui citatissimo Apocalypse Now (Ape-Pocalypse Now), un individuo il cui viaggio lo porterà a confrontarsi con i più terribili degli orrori. E allora vien da se che il Colonnello (Woody Harrelson) è Walter Kurtz (l’iconico colonnello interpretato da Marlon Brando – ma cita anche altri due personaggi del film di Coppola, sfoggiando gli occhiali da sole di Robert Duvall e la parlantina allucinata di Dennis Hooper).

Quello di Harrelson è un personaggio estremamente affascinante (notate come mi riferisca a lui con il termine “personaggio”, non “cattivo” o “villain”) si malvagio ma anche complesso e pieno di contraddizioni e nei confronti del quale il film ci spinge più volte ad essere compassionevoli. Anche se il suo obiettivo è quello di erigere un muro (vi ricorda qualcuno?) per bloccare gli invasori (in questo il film omaggia Il Ponte sul Fiume Kwai)

E’ anche un film di primi piani, quello di Reeves. Di primi piani e di primissimi piani. Da quello delicato sulla piccola Nova (l’inquadratura migliore del film), a quelli scioccanti sul Colonnello (Harrelson eccezionale nel fare il verso a Brando: mascella serrata, mento sporgente, occhi spalancati che però non trasmettono alcuna emozione, viso che si muove costantemente fra luci e ombre rimanendo ora visibile, ora celato), fino ad arrivare a quelli sbalorditivi su Cesare e le altre scimmie (Reeves non li teme, perché la CGI qui ha superato perfino Il Libro della Giungla e quelle scimmie non sembrano soltanto vere, SONO VERE). Che sia giunto il momento di candidare Andy Serkis per i più ambiti premi cinematografici?

Le brutalità dei campi di lavoro si alternano a momenti di rara dolcezza, a situazioni entusiasmanti o a passaggi commoventi, e non ci sarà un solo momento di stanca durante le (quasi) due ore e mezza di narrazione. La fotografia di Seresin (già collaboratore di Reeves nel film precedente e direttore della fotografia del miglior film della saga di Harry Potter, Il Prigioniero di Azkaban) illumina di magniloquenza le immagini glorio composte da Reeves, e oltre all’ottima storia narrata e ai grandi personaggi che la popolano, il film offre tantissimo anche dal punto di vista visivo: ci sono letteralmente centinaia di inquadrature artisticamente riuscite ed emotivamente stimolanti, e ne vorrete ancora anche dopo la seconda o la terza visione.

Questo è grande, grandissimo cinema. Questa è la Ape-Pocalisse per i blockbuster di domani. Il blockbuster d’autore è l’ottimo compromesso fra arte cinematografica e industria cinematografica, e ne vogliamo ancora.

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