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Black Panther: non ci sono più le origin story di una volta

Federico Vascotto 15/02/2018

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Tutto quello che non funziona nel nuovo cinecomic Marvel in attesa di Avengers: Infinity War.

“Tu sei mio figlio e sei l’unico vero re”

Si potrebbe riassumere con queste parole, tratte dal classico Disney Il Re Leone, il cinecomic Marvel in uscita a San Valentino, Black Panther, dopo la breve – ma intensa – presentazione del supereroe wakandiano vista in Captain America: Civil War. T’Challa/Simba (Chadwick Boseman) riceve in eredità il Trono dal padre T’Chaka/Mufasa (John Kani) dopo la morte di quest’ultimo in Civil War. Un’eredità ovviamente ingombrante, nonostante sia stato preparato tutta la vita ad essere Re.

Se finora ci si era lamentati dell’impronta familiare data dall’acquisizione della Marvel da parte della Disney, mai come in questo film la stessa è fin troppo palesata. Non solo per l’ambientazione africana (lì la savana, qui lo Stato fittizio del Wakanda) o per le musiche autoctone (da un momento all’altro ci si aspetta che parta “The Circle of Life” in sottofondo); ma proprio per la storia, condita di parenti serpenti, usurpatori del trono, tradimenti intestini e tradizioni antichissime del continente africano.

Proprio in queste tradizioni e nei paesaggi che si perdono oltre l’orizzonte il regista Ryan Coogler (arrivando da Creed e portandosi dietro un Michael B. Jordan quasi irriconoscibile nel ruolo di Killmonger) ne fa un Manifesto.

Un cast e un regista (quasi) all black – Angela Bassett, Forest Whitaker, Lupita Nyong’o, Letitia Wright, Daniel Kaluuya, Sterling K.Brown – per il primo film su un supereroe di colore; mentre parallelamente in tv arriva Black Lightning della DC e su Netflix c’è stato Luke Cage. Così come nel 2019 sarà una regista donna a dirigere il primo stand-alone su una supereroina Marvel (Ms. Marvel, dopo Wonder Woman della DC l’anno scorso). Eppure i bianchissimi Martin Freeman e un Andy Serkis da applausi funzionano molto meglio della controparte “nera”, poiché non sono insigniti di nessun compito meta-politico. L’unica degna di nota è Danai Gurira nei panni dell’impassibile (in apparenza) feroce guerriera della Guardia Reale Okoye.

Non solo: Black Panther sembra aver preso vari aspetti dei precedenti film Marvel per rimetterli poi insieme alla rinfusa. C’è la più classica delle origin story alla base, che tenta in modo impacciato di essere auto-ironica come il modus operandi Marvel stabilisce: proprio come voleva fare Doctor Strange – e anche lì non ci riusciva appieno, ma almeno c’era il comparto visivo totalmente psichedelico a farla da padrone. Qui abbiamo “solamente” una nazione combattuta fra l’essere ufficialmente un Paese del terzo mondo con tradizioni antichissime quando in realtà in segreto è uno dei più ricchi, avanzati e potenti al mondo poiché in possesso del Vibranio, il metallo (fittizio) più prezioso e resistente in circolazione, tanto che potrebbero aiutare il resto del (vero) terzo mondo a non esserlo più. Se a questo aggiungiamo i toni shakesperiani del Thor di Branagh, gli intrighi di palazzo asgardiani, il più classico percorso dell’eroe e la tecnologia e le missioni da spy story di Iron Man e Captain America, con “spiegoni” in pieno stile Disney che qui cozzano sviscerati lungo le due ore e un quarto di pellicola, Black Panther è servito.

Se la scelta era un tono più serioso come voleva esserlo Doctor Strange, la via da percorrere doveva essere un’altra. Per fortuna il prossimo appuntamento Marvel al cinema è quello con Infinity War, che avrà l’arduo test di riunire “i più grandi supereroi della Terra” così come aveva fatto il primo… e speriamo lo passi a pieni voti!

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