Il Grinch di Yarrow Cheney e Scott Mosier | Recensione

Pubblicato il 1 Dicembre 2018 alle 20:00

Il film è attualmente in programmazione nei cinema italiani.

Ancora una volta la Illumination Entertainment si dimostra l’equivalente cinematografico di Candy Crash o della musica da ascensore, delle Tit-Tac e chi più ne ha più ne metta: da Cattivissimo Me a Sing, passando per Pets e gli orridi Minions, si dimostrano capacissimi nel trovare idee e confezionare prodotti che siano tanto appariscenti in ogni modo quanto mediocri sotto tutti i punti di vista, sviluppati in serie e senza un elemento che li contraddistingua l’uno dall’altro. Il loro scopo è fare soldi – e in quello sono sempre puntualissimi – attirando schiere di bambini e genitori svogliati, offrire uno spettacolo rigorosamente sotto le due ore e poi passare al progetto successivo che, che sia un sequel, uno spin-off o un brand del tutto nuovo, sarà comunque simile al progetto precedente, oppure parecchio analogo all’opera di qualche altro studio rivale.

In questo caso, visto il periodo natalizio, ci si è buttati sul remake animato de Il Grinch, che ritorna in versione computerizzata diciotto anni dopo l’omonimo film live-action di Ron Howard con Jim Carrey, tanto sconclusionato quando indimenticabile e indimenticato.

La storia la conoscono anche i fiocchi di neve: il Grinch (che ha la voce di Benedict Cumberbatch in originale e di Alessandro Gassmann nella versione italiana) è una creatura verde che ama vivere da eremita nei Picchi di Punta Boh nei pressi del villaggio Chinonsò, nel quale lo spirito natalizio è sempre di casa. Il film esplora le origini dello scorbutico mostro verde e la natura del suo piccolo cuore inaridito: deciderà di rovinare le feste agli abitanti di Chinonsò, i Nonsochì, travestendosi da Babbo Natale.

Non è che ci sia molto da dire sul nuovo film d’animazione della Illumination, come i precedenti del resto: la trama è completamente assente, con l’intreccio lasciato da parte per calcare la mano su un susseguirsi infinito di gag, sketch ed episodi, tutti riguardanti la quotidianità, ma riletta in chiave stramba. Il protagonista, tra l’altro, a differenza di quello brutto e malefico di Jim Carrey e ovviamente di quello del racconto di Dr. Seuss, subirà un cambiamento fisico nel momento in cui deciderà di rovinare il Natale agli abitanti del suo villaggio, perdendo molto della conversione tutta spirituale alla base del racconto (che era poi quella tipicamente dickensiana dello Scrooge di Un Canto di Natale).

E’ un Grinch filiforme come il Gru di Cattivissimo Me e che se ne va in giro a combinare guai con il suo cagnolino, il cui design sembra stato scartato dai concept art di Pets, giusto per tenere fede alla continua sensazione di ristagnante riciclo che si respira nei film Illumination. D’altra parte qui si gioca sul sicuro, perché il classico racconto di Natale di Dr. Seuss è troppo puro e perfetto per essere rovinato, non importa con quante gag poco inventive e ancor peggio poco divertenti si cerchi di allungarne il brodo. Probabilmente c’è una ragione per la quale il celebre special televisivo animato del 1966 con Boris Karloff durava solo 26 minuti, ma è difficile pensare che negli uffici della Illumination si siano posti il problema.

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