L’Altra Faccia del Vento di Orson Welles | Recensione

Pubblicato il 4 Novembre 2018 alle 15:00

Arriva su Netflix l’epocale e già leggendario film di Orson Welles, L’Altra Faccia del Vento, rimasto incompiuto dopo la morte del regista e finalmente terminato grazie ai finanziamenti della compagnia di streaming on demand.

Al di là delle polemiche più o meno lecite riguardo la legittimità dell’opera (da attribuire in toto a Orson Welles?, a Peter Bogdanovich?, a Netflix?, in egual misura a tutte le parti coinvolte?) c’è una sola cosa assolutamente oggettiva a proposito de L’Altra Faccia Del Vento, e non è il fatto che si tratta dell’ultimo film del regista (non ditelo a F Come Falso che sennò si offende: per oltre quarant’anni l’onore è stato suo): è il fatto che si tratta di un film wellesiano, in tutto e per tutto.

Conosciamo la vicenda: girato a più riprese nel primo lustro degli anni ’70, il film non fu mai completato prima per questioni legali, poi per la morte del regista; Bogdanovich, che figura anche come attore, si prese l’onere di portare definitivamente a termine l’opera, voleva già presentarla a Cannes nel 2010 ma altre beghe legali gliel’hanno impedito. Finalmente eccoci qua, 2018, e dopo l’anteprima al Festival di Venezia l’opera dal caleidoscopico formato (c’è di tutto, dal digitale al super 8 al 35 mm, dal colore al bianco e nero) sbarca su Netflix, che piaccia o non piaccia ai puristi della sala cinematografica è stata fino a prova contraria l’unica casa di produzione che ha scommesso sulle qualità da fenice del progetto.

E quindi si riparte, si ricomincia, si comincia per la prima volta o si ritorna indietro agli anni ’70. Ci sono tutti, da Bogdanovich a Susan Strasberg, da Lilli Palmer a Tonio Selwart, da John Huston a Oja Kodar (compagna di Welles negli ultimi venticinque anni di vita dell’autore): il film è quanto di più metacinematografico si possa concepire, e la linea di demarcazione fra universale e beffarda ironia e marmoreo destino è sottile come non mai.

Un regista all’epilogo della sua carriera, tale Jake Hannaford (interpretato dal regista John Huston), sta cercando di completare le riprese del suo ultimo film, L’Altra Faccia del Vento, però fatica a trovare non solo i fondi ma soprattutto l’attore protagonista, John Dale (Bob Random), che è scomparso dalla circolazione dopo una lite sul set. Durante la festa del suo compleanno, il regista decide di proiettare un montaggio preliminare del film ai produttori, agli attori, ad alcuni critici cinematografici e a degli studenti di cinema che stanno girando un documentario su di lui.

La storia della festa del compleanno del regista si alterna alla storia del film proiettato durante la festa, come una sorta di Decamerone filmico, ricostruito in stile found footage (ma quindi si può dire che questa intuizione Welles l’ha avuta con dieci anni di anticipo rispetto al Ruggero Deodato di Cannibal Holocaust?). Come in Quarto Potere, l’enorme figura del personaggio principale ci viene illustrata dai personaggi secondari, che si agitano all’ombra proiettata dal gigantesco ego di Hannaford (uno Huston che sembra un po’ se stesso, un po’ Ernest Hemingway, un po’ Welles e un po’ Fidel Castro) e si muovono febbricitanti come i paparazzi, i fan e i collaboratori di Guido Anselmi in . L’autore è il Dio del suo film, parla agli attori dando loro indicazioni come farebbe una divinità con i profeti che riescono a coglierne la presenza, ma quando si esce dal film per finire nella sua vita restano tante bugie, tanta invidia e parecchi rimpianti.

L’Altra Faccia Del Vento è un film che sul suo regista non dice nulla di più di quanto già la sua filmografia non abbia fatto in tutti questi anni, non aggiunge qualcosa al suo stile ma semmai lo riesuma, e cerca di omaggiarlo imitandolo. La missione può dirsi riuscita pienamente, al di là di chi si meriti gli applausi.

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