The Outsider di Martin Zandvliet | Recensione

Pubblicato il 12 Marzo 2018 alle 15:30

Il film è attualmente disponibile su Netflix.

La produzione tribolata di The Outsider, nuovo film distribuito (ma non prodotto) dal gigante dello streaming Netflix, negli ultimi due anni ha visto gente andare e venire. Si era partiti col Daniel Espinosa di Easy Money, Safe House e Life in cabina di regia e Michael Fassbender come protagonista, che però lasciò il ruolo principale a Tom Hardy per quello che sarebbe dovuto diventare un film yakuza diretto dal leggendario Takashi Miike (L’Immortale, il suo nuovo film presentato a Cannes 2017, è disponibile proprio su Netflix).

Sarebbe stato il sogno cinefilo di tutti, ma niente da fare: il film, gira che ti rigira, è stato affidato a Martin Zandvliet, regista danese che l’anno scorso è stato perfino candidato al premio Oscar per il miglior film straniero col bellissimo Land of Mine.

Zandvliet inizialmente aveva contattato Jeremy Renner, che però ha preferito il Wind River di Taylor Sheridan, e alla fine il ruolo di Nick Lowell è stato affidato definitivamente a Jared Leto. Il premio Oscar per Dallas Buyers Club all’inizio di The Outsider sembra appena uscito dal set di Blade Runner 2049 (barba e capelli sono identici, mancano solo le lenti a contatto usate per impersonare il cieco e bieco Niander Wallace) ma se nel film di Denis Villeneuve risultava piuttosto petulante, qui accade esattamente l’opposto: ma volendo ricalcare l’interpretazione ermetica di Ryan Gosling nel capolavoro edipico Solo Dio Perdona (The Outsider prende parecchi spunti da Refn, soprattutto l’uso della violenza come veicolo per comprendere i personaggi che popolano l’intreccio) l’attore/cantante finisce col risultare quasi sempre inespressivo e monotono. Non per colpa sua, però, c’è da dirlo.

Il peggior difetto del film di Zandvliet infatti si riscontra nella sceneggiatura di Andrew Boldin, che dal punto di vista della narrazione trasuda banalità da ogni pagina e contamina con la sua piattezza tutti gli altri elementi dell’opera, dalla messa in scena – che, se pur tutto sommato buona, non sprizza comunque per eleganza o particolari intuizioni visive – al lavoro degli attori, chiamati a dar corpo e anima a personaggi che potremmo eufemisticamente definire abbozzati e al centro di una trama davvero poco entusiasmante.

Nick Lowell (Leto) è un soldato americano che entra a far parte della yakuza grazie al suo legame con Kiyoshi (Tadanobu Asano), al quale salverà la vita in prigione: straniero in terra straniera, il nostro gaijin scoprirà la cultura giapponese filtrata attraverso l’oscuro sottobosco criminale di Osaka, e mentre infuria una terribile guerra fra i capi famiglia della mafia giapponese, si innamorerà della bella sorella di Kiyoshi, Miyu (Shiori Kutsuna).

Di interessante c’è che Boldin ha scritto questo film lasciando da parte una delle cose principali della narrazione cinematografica, ovvero il background dei personaggi: la scelta è coraggiosa e ammirevole, perché è molto più difficile spingere il pubblico ad affezionarsi a protagonisti di cui non si sa nulla – o quasi nulla – e purtroppo il film è proprio qui che fallisce, quando cioè cerca di stabilire un punto di contatto fra spettatore e personaggi, che sembrano cliché di carne piuttosto che persone che interagiscono fra loro.

La ricostruzione approssimativa di questo vaporoso Giappone dei tardi anni ’50 chiude il discorso su un’opera mediocre, che ha molto poco da dire e quel poco lo dice in maniera frettolosa e abbozzata.

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