Black Panther – Recensione in anteprima

Pubblicato il 12 Febbraio 2018 alle 10:00

T’Challa torna nell’isolata e tecnologicamente avanzata nazione africana del Wakanda per salire al trono dopo la morte di suo padre, re T’Chaka. Nei panni di Black Panther dovrà affrontare Ulysses Klaw, contrabbandiere di vibranio, e un nuovo avversario assetato di vendetta: Killmonger. Mentre riflette sul suo ruolo di sovrano, T’Challa, coadiuvato dalla CIA e dalle Dora Milaje, il corpo militare femminile in difesa del Wakanda, dovrà salvare il paese da una sanguinosa guerra civile.

Se non fossimo a conoscenza del fatto che il regista Ryan Coogler è un afroamericano nato e cresciuto ad Oakland, basterebbe dare un’occhiata alla sua filmografia per farci venire qualche vago sospetto. Il suo lungometraggio d’esordio è stato Prossima fermata: Fruitvale Station, docu-fiction indie ambientata nella sua città natale che racconta l’omicidio del giovane nero Oscar Grant ad opera di un agente di polizia avvenuto nel 2009. Ha poi fatto il suo primo passo verso il mainstream con Creed, sequel-spin-off di Rocky, nel quale ha dimostrato di saper trattare il mito sul grande schermo come pochi altri ed è riuscito, contro ogni scetticismo, a dare un degno erede, pure lui dalla pelle nera, allo Stallone Italiano.

Cultura afro(americana e non) e un passaggio di consegne da un eroe della vecchia guardia alla nuova generazione. Tematiche che si riscontrano anche in Black Panther, primo supereroe africano nella storia dei fumetti, precursore della blaxploitation anni ’70. Supereroi neri ne abbiamo già avuti sul grande e piccolo schermo, Blade, Spawn, la Catwoman di Halle Berry, lo stesso Nick Fury di Samuel L. Jackson nel Marvel Universe cinematografico, Luke Cage e Black Lightning in tv. Ma Black Panther si prepone, proprio come la sua controparte cartacea, di essere il primo film dei Marvel Studios totalmente imperniato sulla cultura del Continente Nero. Proprio come aveva fatto con Creed, Coogler interviene su una mitologia preesistente e si costruisce il suo microcosmo, il Wakanda futuristico ed ipertecnologico dove convivono primordiali usi tribali, costumi multicolori e aeronavicelle da space opera.

Stando alle premesse, la trappola ricattatoria del film retorico e vittimista sulle minoranze etniche sembra pronta a scattare come una tenaglia. E, invece, Coogler, fedelmente al fumetto, rovescia il guanto e si concentra sulla politica isolazionista del Wakanda che non condivide le proprie ricchezze con il resto di un continente per buona parte ridotto alla fame. Altro che utopia, quindi. Il Wakanda rispecchia l’America di Trump e il Regno Unito della Brexit. Il protagonista, interpretato da Chadwick Boseman, deve vedersela con una serie di conflitti interiori sulla sua nuova carica di sovrano espressi da un paio di sequenze metafisiche in cui si confronta col defunto padre T’Chaka, rimandando a Simba e Mufasa ne Il Re Leone.

Per la prima volta, in un film Marvel Studios, abbiamo un cattivo davvero sfaccettato e per il quale si può provare onesta empatia. Michael B. Jordan, protagonista dei due precedenti film di Coogler, presta il volto a Killmonger, vittima da bambino di un’ingiustizia da parte del governo wakandiano e contrario alla politica isolazionista del paese. Le sue motivazioni sono giuste, le sue modalità sbagliate, i suoi fini aberranti. E sono queste le regole fondamentali per costruire un villain credibile.

Altro elemento fortemente attuale, in linea con la rivendicazione del girl power che sta avendo come epicentro proprio Hollywood, sono le guerriere del Dora Milaje, guardia del corpo di T’Challa, efficace risposta della Marvel alle Amazzoni di Wonder Woman. Il team è guidato da Danai Gurira, la già badass Michonne di The Walking Dead, e vede tra le sue fila Nakia, una Lupita Nyong’O da far innamorare il protagonista e il pubblico.

Tutte componenti queste che stanno facendo urlare la critica americana al capolavoro, si parla del miglior film Marvel di sempre e di uno dei migliori film di supereroi degli ultimi anni. Questo perché viviamo un momento culturale in cui si predilige la tematica alla forma (si veda il trionfo agli Oscar de Il Caso Spotlight e Moonlight). Appena un blockbuster toglie un po’ di spazio all’azione per concederne di più ad intimismo e contenuto, scatta la standing ovation della critica d’oltreoceano.

Attenzione, inoltre, a parlare di attualizzazione del fumetto. Attualizzare significa prendere il Joker di Batman, un gangster in gessato viola anni ’30, e trasformarlo in un punk terrorista col volto coperto dalle cicatrici, oppure traslare Bane, un wrestler anni ’90, in un talebano che attacca la borsa valori di Gotham in piena crisi economica. Tale operazione viene qui apportata solo su Killmonger. Le tematiche di Black Panther sono, purtroppo, ancora attuali dopo più di cinquant’anni, merito dei suoi creatori, Stan Lee e Jack Kirby, e nulla è stato aggiornato. Era tutto già presente nel fumetto (beninteso che il Dora Milaje è stato creato negli anni ’90).

No, Black Panther non è un film perfetto, non ci si avvicina neanche lontanamente. Coogler soffre della sindrome del regista indie trapiantato nel blockbuster da 200 milioni di dollari, un budget che non ha mai visto con scene d’azione d’ampio respiro ed effetti digitali che, fino all’altroieri, non sapeva nemmeno dove stessero di casa. E’ un Coogler al guinzaglio, che ha paura di fare il passo più lungo della gamba, mette nel film tutto quello che deve esserci e niente di più, tutto convenzionale e prevedibile, nessuna sorpresa, un po’ come il primo Iron Man di Favreau, una dignitosa storia delle origini che si limita ad andare dalla A alla B. Il suo sguardo è riconoscibile solo in quelle due o tre scene ambientate nella sua Oakland, poi ci mette tanto mestiere ma poco sentimento, molta testa e poca pancia.

Il problema più evidente di sceneggiatura è proprio quello di dover raccontare le origini del protagonista, l’ascesa del supereroe, ma i due momenti fondamentali, la morte del padre e il suo esordio come Black Panther, sono già stati bruciati in Captain America: Civil War. E allora che si fa? Si prende Forest Whitaker e gli si cuce addosso un ruolo surrogato della figura paterna, si fa assumere a T’Challa una sostanza che lo priva dei suoi poteri per poter effettuare a posteriori il rituale di combattimento per meritarsi il ruolo di Black Panther. Come vedere Bruce Wayne che prima indossa il costume di Batman e poi si sottopone all’addestramento per diventarlo.

La prima parte del film è tutta una citazione esplicita da 007 e dal Cavaliere Oscuro di Nolan, due franchise legati a doppio filo, vuoi per un tono serioso e privo delle facezie tipiche dei Marvel Studios, vuoi per una violenza più esplicita del solito. Shuri, impertinente sorella di T’Challa, scienziata geniale quasi al livello di Tony Stark, è l’Agente Q/Lucius Fox che fornisce i gadget al fratello. Ci sono tutti i cliché del genere spionistico contemporaneo: la rapina iniziale, la trasferta nella metropoli asiatica, l’arena del casinò, l’inseguimento stradale e, immancabile, il cattivo che viene catturato, sottoposto ad interrogatorio e poi evade (come il Joker ne Il Cavaliere Oscuro e Silva in Skyfall). In questo caso, il faccia a faccia è tra Ulysses Klaw e Everett Ross, il nuovo Phil Coulson della saga, gli unici due personaggi bianchi del film, uno cattivo e l’altro buono, rispettivamente interpretati da Andy Serkis e Martin Freeman che tornano a duettare dopo Lo Hobbit.

Nella seconda parte, il film diventa un’avventura tarzanide nella giungla con uno spiccato elemento fantasy. M’Baku, l’Uomo Scimmia, è il personaggio ambiguo della storia e funge anche da moderato alleggerimento comico. Durante la battaglia finale vediamo combattimenti corpo a corpo e rinoceronti corazzati sulla terra e aeronavi che si inseguono in cielo. Abbassi lo sguardo e vedi Il Signore degli Anelli, guardi in alto e vedi Star Wars. E andrebbe benissimo così se ci fosse un guizzo autoriale, una gag memorabile, effetti digitali all’altezza o un apice emotivo da farti rizzare i peli sul collo. E invece c’è un regista che deve stare tra le righe, deve infilare due scene durante i titoli di coda davvero poco rilevanti e portare a termine un compitino dignitoso per fare tutti contenti. Ma Coogler è più bravo di così.

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