Wonder di Stephen Chbosky | Recensione

Pubblicato il 21 Dicembre 2017 alle 20:00

Owen Wilson e Julia Roberts sono gli splendidi genitori di un Jacob Tremblay nascosto dietro un make-up mostruoso nel nuovo film di Stephen Chbosky.

Nella Londra vittoriana c’era una volta Joseph Merrick, lo sfortunato e orribilmente deforme Uomo Elefante, così chiamato per colpa di una bruttissima forma della Sindrome di Proteo che aveva sfigurato il suo volto. Quell’Uomo Elefante che veniva scoperto dal dottor Frederick Treves di Anthony Hopkins in The Elephant Man di David Lynch e che il William Gull di From Hell di Alan Moore paragonava con sincera fascinazione a Ganesh, dio dalla testa di elefante appartenente alla religione induista.

Tanto nella ricostruzione degli omicidi seriali di Jack Lo Squartatore ad opera del bardo di Northampton quanto nell’indimenticabile opera lynchiana, era difficile non affezionarsi a questo mostruoso essere umano dal cuore d’oro, ma del resto quando si racconta una storia è sempre facile suscitare nel pubblico sentimenti di pietà e dolcezza verso protagonisti più o meno disagiati.

In Wonder di Stephen Chbosky la cosa vale pure doppio, perché il protagonista August “Auggie” Pullman – a differenza di Merrick, fenomeno da baraccone che esaltava medici e studiosi sul finire dell’ ‘800) – è un bambino dolce e intelligente alle prese con la più grande sfida della sua vita: la scuola.

Dopo 27 interventi chirurgici per una malformazione cranio facciale, Auggie ha sempre temuto il contatto con i bambini della sua età e per questo non è mai andato a scuola in vita sua. Giunta l’ora della prima media i suoi genitori, Isabel e Nate (degli straordinari Julia Roberts e Owen Wilson) decidono che per Auggie – ma anche per loro – è tempo di affrontare questa grande, terribile prova e così il nostro piccolo, brutto e amabile protagonista entrerà definitivamente nel terribile e spietato mondo dei bambini.

La prima mezz’ora vola via rapidamente presentando tutti i personaggi: Auggie, i suoi genitori, il preside gentile e i bambini, sia quelli simpatici che quelli stronzi, i bulli, sempre pronti a denigrare Auggie e vero e proprio incubo per i poveri Isabel e Nate, ai quali piange il cuore nel mandare il loro unico figlio nella fossa dei leoni.

Ma la grande forza del film è che non è davvero – o per lo meno, non al cento per cento – un film su Auggie e le sue difficoltà d’integrazione. A un certo punto, il personaggio deforme di Jacob Tremblay diventerà più un coprotagonista intorno al quale alternare altre figure centrali.

E col variare dei punti di vista cambiano le prospettive, e il più delle volte Auggie viene rilegato a comprimario nella sua stessa storia e allora è facile comprendere e affezionarsi a personaggi che in precedenza avevamo giudicato in maniera troppo frettolosa e miope.

Il film quindi non vuole giocare sul sicuro e mirare alla lacrimuccia facile (non che qualcuno avrebbe criticato la produzione per questo, dato che raccontare una semplice favola sull’amicizia e sulla diversità sarebbe stata una scelta legittima e comprensibile) e diventa una sorta di ancor più apprezzabile Rashomon in salsa coming-of-age.

Menzione a parte per Julia Roberts e Owen Wilson, che oltre ad essere splendidi come coppia diventano magnifici quando devono manifestare tutte le insicurezze e le paure dell’essere genitori, ed emergono in questo film che poteva accontentarsi di essere semplice ma che invece riesce ad essere qualcosa di più.

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