Civiltà perduta – Recensione

Pubblicato il 2 Luglio 2017 alle 23:12

Agli inizi del ‘900, l’esploratore britannico Percy Fawcett viene inviato in Amazzonia per dirimere una disputa sui confini tra Brasile e Bolivia ed evitare una guerra. Fawcett si convince dell’esistenza di un’antica civiltà che vive nel mitico El Dorado ed organizza una nuova spedizione fiancheggiato dal caporale Henry Costin e dal biologo James Murray. L’ossessione per “la città perduta di Z” spinge Fawcett a trascurare la sua famiglia.

Pecca di molti difetti tipici del biopic e della docu-fiction la nuova prova in salsa neoclassica di James Gray, tratta dal libro Z la città perduta di David Grann. Anziché concentrarsi su un momento fondamentale della vita del protagonista, il film cerca di racchiudere circa un ventennio della sua biografia in poco più di due ore. Ne risulta un’opera frammentaria, sintetica, con una struttura drammaturgica ai limiti del suicidio. L’aderenza ai fatti reali spinge l’adattamento verso un tono misurato e dimesso. La promessa di un film avventuroso è del tutto disattesa.

Brad Pitt avrebbe dovuto interpretare Percy Fawcett ma ha poi rifiutato il ruolo limitandosi a produrre il film. Il testimone è passato a Benedict Cumberbatch che ha abbandonato a produzione iniziata per delle concomitanze d’impegni. Si è quindi alzato dalla panchina Charlie Hunnam (Pacific Rim, King Arthur), mascellone biondo con gli occhi azzurri, fisicamente appropriato per la parte ma incapace di trasmettere l’ossessione del protagonista.

L’unico modo che Robert Pattinson trova per non essere ricordato come il protagonista di Twilight è quello di nascondersi dietro una folta barba e un paio d’occhiali. Dopo American Sniper, Sienna Miller continua ad interpretare la mogliettina che sta a casa a badare ai figli in attesa che il marito torni dalle sue lunghe peregrinazioni. Tom Holland, il nuovo Spider-Man cinematografico, è il migliore del cast anche se il personaggio è risolto in due scene.

La tensione dei viaggi in Amazzonia viene spezzata dai ritorni alla civiltà, tanto che i momenti “avventurosi” si limitano a tre capatine nella giungla. Certamente questi sono i fatti reali ma adattare significa realizzare uno spettacolo che tenga desto il pubblico e non una serie di parabole inframezzate da dialoghi e continui cali di ritmo.

Tuttavia, quest’altalenanza tra il mondo selvaggio della giungla, l’inciviltà della Prima Guerra Mondiale ed il mondo morigerato, distaccato, finanche bigotto dell’Inghilterra d’inizio novecento costituisce la dicotomia vincente dell’opera.

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