Baywatch – Recensione

Pubblicato il 6 Giugno 2017 alle 22:51

Emerald Bay, Florida. Il tenente Mitch Buchannon, a capo di un team di guardaspiaggia, deve addestrare le nuove reclute: Matt Brody, un vanitoso ex-nuotatore olimpionico condannato ai lavori socialmente utili, la surfista Summer, e Ronnie, un nerd imbranato con una cotta per la bellissima C.J., valido membro della squadra. Insieme dovranno sventare un traffico di droga gestito da Victoria Leeds, proprietaria del lussuoso Huntley Club.

Un gruppo di bellissimi guardaspiaggia in costume rosso che corre al rallentatore sull’assolato bagnasciuga, muscoli oliati in bella mostra e procaci rotondità femminili che ballonzolano. E’ questa la prima immagine che ci viene in mente quando pensiamo a Baywatch, serie tv cult degli anni ’90 che simboleggia un certo immaginario audiovisivo che prese piede nella cultura popolare dell’epoca, nel quale l’ostentazione dell’estetica, figlia del decennio precedente, era preferita al contenuto tanto da diventare il contenuto stesso.

Diciamola tutta, Baywatch non aveva certo seguito per la soap di serie Z o per le dinamiche action-investigative da quattro soldi – memorabile, in tal senso, lo scontro trash con una dozzinale piovra di gomma in uno degli episodi della terza stagione – ma solo per l’avvenenza degli attori protagonisti, nessuno dei quali ha poi fatto carriera. No, neanche i due attori più iconici, David Hasselhoff, proveniente dal successo di Supercar, e la maggiorata Pamela Anderson, icona sexy del periodo, hanno poi avuto una proficua carriera cinematografica o televisiva.

La maledetta ventata di nostalgia che ha finora ricondotto Hollywood verso gli anni ’80 nella realizzazione di reboot, remake, sequel e quant’altro, vira quindi al decennio successivo per sottrarre Baywatch al suo media d’appartenenza e traslarlo sul grande schermo. Il vuoto pneumatico dell’originale viene qui colmato da una reinterpretazione in chiave comica affidata a Seth Gordon, esperto del genere (Come ammazzare il capo… e vivere felici, Io sono tu), la cui cifra stilistica verte al surreal-demenziale con qualche sterile gag volgarotta e una lieve exploitation che non sfocia mai nel nudo gratuito.

Alla faccia delle rivendicazioni femministe tanto in voga ad Hollywood, il film sfiora la misoginia indossando una maschera politicamente corretta piuttosto ipocrita. Le luci dei riflettori se le prendono Dwayne Johnson e Zac Efron che fanno a gara di machismo. La pur autoironica Kelly Rohrbach è la donna trofeo cui ambisce Jon Bass, stereotipo del nerd uso ridere. Ilfenesh Hadera sta nel gruppo giusto per la necessità di una variante etnica ma il suo ruolo è pari allo zero. Alexandra Daddario tiene in piedi la bandiera del girl power. E’ l’unica che non si limita a mostrare le curve e ad avere un ruolo attivo nella storia come pure l’indiana Priyanka Chopra nel ruolo dell’improbabile gangster dalle generose scollature

Se non vi bastasse Efron a stare alla larga dal film, la storia s’incarta su dinamiche investigative convenzionali e noiose con un paio di sequenze action mal congegnate che dimostrano l’inadeguatezza del regista ed effetti digitali di pessima fattura. Un b-movie malamente travestito da blockbuster che tradisce in parte il concept della serie originale e ne stiracchia la vacuità per due ore insopportabili.

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