King Arthur – Il Potere della Spada – Recensione

Pubblicato il 13 Maggio 2017 alle 22:52

Il malvagio Vortigern usurpa il trono di Camelot uccidendo suo fratello, il re Uther Pendragon. Il giovane principe Arthur sopravvive all’eccidio e cresce nei bassifondi della città, inconsapevole del suo retaggio. Quando estrae la leggendaria Excalibur dalla roccia, però, Arthur si trova di fronte al suo destino e dovrà capire se sia meritevole di salire al trono.

Ci vuole solo mezz’ora di film per vedere Arthur impugnare l’Excalibur ed estrarla dalla roccia. E’ un momento esaltante, nel quale il regista Guy Ritchie riesce ad imprimere una notevole enfasi epica. Inutile tirarla per le lunghe, il pubblico conosce già la pagina più nota ed iconica del mito arturiano, il punto non è se il protagonista possa brandire o meno la spada ma se possa essere degno della responsabilità che comporta.

Ritchie è uno di quei registi inglesi che prende il mito sul serio ma non troppo, la sua Londinium dark e ruvida è la versione medievale di quella vittoriana vista in Sherlock Holmes, altro eroe della letteratura britannica che ha rinverdito per il grande schermo, ma non si fa mancare una misurata vena d’ironia.

Il discorso è qui impostato in maniera simile al Thor della Marvel (a sua volta diretto da un inglese, lo shakespeariano Kenneth Branagh). E l’accostamento è ancor più lampante se si pensa che il progetto Warner sui Cavalieri della Tavola Rotonda nasce proprio sull’impronta di quello degli Avengers. L’intenzione sarebbe quella di realizzare film stand-alone sui rispettivi Cavalieri per arrivare all’epico ensemble finale.

L’Excalibur come il Mjolnir, quindi, che conferisce autentici superpoteri all’Arthur guascone e tamarro di Charlie Hunnam, proveniente dal borgo, dal ghetto, contro i poteri forti rappresentati dal parente usurpatore, non il Loki del londinese Hiddleston ma il Vortigern del conterraneo Jude Law (già Watson nello Sherlock Holmes di Ritchie).

Proprio nella lotta di classe, però, sta l’equivoco che porta gli sceneggiatori a sbagliare strada nel mondo dell’epica anglosassone. Invece di giungere a Camelot, infatti, si ritrovano nella foresta di Sherwood con i Cavalieri della Tavola Rotonda trasformati in arcieri che devono fomentare la rivolta contro il tiranno. I personaggi femminili sono lasciati troppo in disparte. Appena funzionale la maga (Astrid Bergès-Frisbey) che accompagna i protagonisti, una sorta di Merlino al femminile, mentre Annabelle Wallis (Annabelle, La Mummia) è una Lady Marian che fa il doppio gioco a corte ma la sua presenza è stata notevolmente ridotta in post-produzione.

La cifra stilistica di Ritchie è nota. Nonostante cerchi di vivacizzare la narrazione con ritmi da videoclip e post-modernismi di regia, la storia s’incarta su dinamiche fin troppo classiche a voler essere buoni, banali a dirla tutta, gravata dai continui inserti metafisici delle visioni di Arthur e da elementi fantasy sostenuti da una CGI mediocre. Tutto sommato, l’approccio per avvicinare le nuove generazioni al mito arturiano è quello giusto, la resa è a tratti maldestra e noiosa.

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