Kubo e la Spada Magica – Recensione

Pubblicato il 3 Novembre 2016 alle 23:37

Giappone antico. Kubo, un giovane privo di un occhio, si prende cura della madre malata e si guadagna da vivere come raccontastorie utilizzando lo shamisen, un magico strumento musicale, per animare i suoi origami. Quando Kubo scatena accidentalmente una maledizione, deve unire le forze con la Scimmia e con l’insetto samurai Scarabeo per trovare l’armatura perduta di suo padre, il più grande samurai mai esistito, svelare il mistero della sua morte e sconfiggere il vendicativo Re Luna e le perfide Sorelle.

Kubo e la spada magica poster

Giunta al suo quarto lungometraggio, la Laika Entertainment si è ormai affermata come una realtà importante nell’ambito del cinema d’animazione e sembra aver consolidato le linee guida nella struttura narrativa dei suoi film. Si tratta di allegoriche avventure adolescenziali che costituiscono il consueto rito di passaggio per i protagonisti. I tre film precedenti, Coraline, ParaNorman e Boxtrolls – Le scatole magiche, avevano un’anima fortemente goticheggiante.

Stavolta invece siamo nel mondo delle antiche leggende giapponesi con una deliziosa caratteristica metanarrativa. Siamo di fronte ad un film con pupazzi animati in stop-motion e lo stesso protagonista racconta delle storie utilizzando degli origami animati con la musica. Narrazione nella narrazione. Animazione nell’animazione.

La ricerca dell’armatura diviene per il protagonista un viaggio alla scoperta delle origini e, soprattutto, un processo di elaborazione ed accettazione del lutto. Tutto ruota intorno al tema della famiglia. Kubo trova due figure genitoriali nella Scimmia e nel samurai Scarabeo, che hanno le voci di Charlize Theron e Matthew McConaughey nella versione originale, mentre gli avversari da affrontare sono il nonno-dio Re Luna (Ralph Fiennes) e le perfide zie (Rooney Mara).

La stilizzazione estetica del film si rifà alle stampe di Kiyoshi Saito e la storia procede con buon equilibrio tra action e intimismo, venata da una componente comica moderata, mai ostentata, che regge soprattutto sui battibecchi dei personaggi ed evita facili gag slapstick. Tra le sequenze più memorabili, lo scheletro gigante è il più grande pupazzo animato mai costruito per un film in stop-motion. La discesa del guercio Kubo nel giardino d’occhi subacqueo è invece la metafora di una ricerca interiore.

Il conflitto del protagonista per mantenere la propria umanità s’intreccia, ancora in chiave metatestuale, con lo sviluppo di un processo narrativo. In tal senso, accettare che una storia abbia fine significa renderla davvero memorabile contro ogni pretesa di distaccata immortalità che confina invece nell’oblio.

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