Dylan Dog n. 356: La macchina umana – Recensione

Pubblicato il 29 Aprile 2016 alle 20:13

Dylan Dog è un impiegato della Daydream, un’azienda consociata della Ghost Enterprise, e deve vivere un’alienante, ripetitiva quotidianità fin troppo reale e priva di scopo. Dylan non ricorda nulla della sua attività di indagatore dell’incubo ed è spiato da alcuni misteriosi individui che si celano nell’ombra. Solo l’amore della collega Kalyn sembra spingerlo a guardare la nuova realtà da un’altra prospettiva.

Alessandro Bilotta è noto ai lettori di Dylan Dog per essere l’autore del Pianeta dei Morti, la saga ambientata in un futuro ipotetico nel quale il vecchio Dylan è alle prese con un mondo invaso dagli zombi. George Romero ci ha insegnato che le migliori storie di zombi sono quelle in cui i morti viventi assumono valenza metaforica sociale e sarebbe stato piuttosto semplice accostare gli zombi alla figura degli impiegati.

Bilotta, invece, ci dice che la realtà è già abbastanza spaventosa senza aver bisogno di inserire l’elemento horror e vedere l’indagatore dell’incubo trasformato in un burocrate è più terrificante che vederlo affrontare qualche mostro o serial killer. Lo sceneggiatore ricorre ad una delle formule vincenti della serie, ovvero non limitarsi a far indagare Dylan sul caso del mese ma fargli vivere l’orrore sulla propria pelle, in prima persona.

Una delle citazioni principali della storia è Fantozzi, capolavoro della tragicommedia all’italiana, uscito nel 1975 (tratto dalle due antologie scritte dall’attore protagonista Paolo Villaggio), a cui rende omaggio in apertura dell’albo, con Dylan che è in ritardo per timbrare il cartellino, e in tutta la parte conclusiva. Lo sceneggiatore ha una felice intuizione: se sottraiamo la componente comica alla realtà impiegatizia, grottesca e surreale, del povero Fantozzi, avremo con tutta probabilità un horror. E, come la megaditta del film, anche la Daydream in cui è impiegato Dylan non sembra avere uno scopo specifico. Burocrazia fine a se stessa.

L’orrore ha inizio dal contratto di lavoro che vediamo, infatti, nella prima vignetta della storia. E’ il compromesso con il quale l’essere umano diventa l’ingranaggio di una macchina traslandosi in una dimensione alienante e spersonalizzante che può tirar fuori il peggio di sé, da piccole meschinità quotidiane alle vessazioni dei superiori che annullano qualsiasi meritocrazia. Una condizione che tende ad automatizzare l’individuo fino a renderlo dipendente dal lavoro e a trasformare il giorno di riposo in un limbo senza scopo.

Poiché nella storia non c’è un elemento horror, il disegnatore Fabrizio De Tommaso deve ricorrere ad ogni espediente per rendere l’idea di una realtà terrificante nella sua normalità. Il contrasto dei bianchi e dei neri, i primi piani disturbanti, le vignette mute e la deformazione prospettica possono richiamare alla mente il cinema espressionista tedesco, proprio quei film che Fantozzi e i colleghi erano costretti a vedere e rivedere dal capoufficio, tanto da sembrare lunghissimi e da diventare delle “cagate pazzesche” (quando, a onor del vero, sono dei capolavori di durata molto più breve) in un riflesso di ciclicità senza via d’uscita.

Il movimento espressionista, del resto, ha sempre demonizzato l’industrializzazione indicandola come una delle ragioni della crisi esistenziale dell’individuo. Il titolo e i contenuti della storia di Bilotta rimandano facilmente a Metropolis di Fritz Lang. De Tommaso illumina gli squallidi uffici della Daydream con una predominanza di bianco. Si tratterebbe di luce solare ma non emana calore, è un bianco agghiacciante, sterilizzante, che troviamo già nella copertina di Angelo Stano dove i cubicoli degli impiegati diventano un labirinto senza via d’uscita, Dylan è l’unica nota di colore e tra gli impiegati si aggirano esseri mostruosi, tra i quali insetti antropomorfi.

Il riferimento a La metamorfosi di Kafka è chiaro. L’autore cecoslovacco condannò la burocrazia ne Il processo e Il castello. La storia di Bilotta ricrea inoltre il clima di paranoia che può riscontrarsi nelle opere kafkiane con quegli individui che spiano Dylan nascosti nel buio.

Groucho gioca un ruolo ambiguo. Da un lato alleggerisce la storia con le consuete barzellette, dall’altro diventa un vero e proprio esegeta del lavoro, tentando di mantenere Dylan al sicuro e citando esplicitamente il filosofo Max Horkheimer e il sociologo Erich Fromm. Non sfugge naturalmente che il comico da cui Groucho prende le fattezze faccia Marx di cognome. La dicotomia di Groucho nella storia è rimarcata dal segno di De Tommaso che lo rende piacevole e divertente nelle sequenze comiche, quasi inquietante in quelle più serie e riflessive.

Dylan viene quindi sottratto alla sua condizione diegetica, al suo mondo di fantasia, e traslato nella realtà. Il personaggio comincia quindi a mostrare segni d’invecchiamento, inizia a deperire. Gli oggetti simbolo dell’indagatore dell’incubo, quali il clarinetto e il modellino del galeone, vengono messi all’asta. Un’autentica destrutturazione.

La collega Kalyn è l’ancora di salvezza che rappresenta la fuga nel mondo dell’immaginario. Dylan riacquista così, in un’illusoria parentesi, la sua identità di indagatore dell’incubo. Ma l’ingannevole risoluzione è anche banale, scontata, facile. Il personaggio non ne esce, anzi, si ritrova ancora intrappolato nella sua terribile quotidianità.

Il sottotesto presenta quindi un’ulteriore chiave di lettura, la più frequente nelle attuali storie dell’indagatore dell’incubo. La meccanica monotonia impiegatizia riflette una serie a fumetti bloccata in una serialità ripetitiva e gli sceneggiatori, da artisti, divengono artigiani intrappolati nell’esercizio di risaputi schemi narrativi.

La storia punta il dito contro l’individuo che si sottomette al giogo di sua volontà in un insano ribaltamento dei valori. La connessione tra la Daydream e la Ghost Enterprises riflette il collegamento a doppio filo tra lavoro e consumismo come un serpente che si morde la coda. Nel finale si torna a Fantozzi. Laddove, nel film di Salce, i dirigenti della compagnia insultavano la povera Mariangela, figlia del protagonista, chiamandola “Cheetah” per il suo aspetto fisico, qui le scimmie diventano loro, animali ammaestrati come i loro sottoposti.

L’unica vera via di fuga è un gesto sovversivo, come quel sasso che Fantozzi lanciava contro le finestre della Megaditta o la ribellione contro il capoufficio che lo costringe ad assistere alle proiezioni dei film espressionisti. Se il personaggio di Paolo Villaggio finiva per ritrovarsi comunque sottomesso a causa della sua mediocrità, Dylan trova un epilogo salvifico grazie all’amore di un autore, un artista, che l’ha trascinato fuori dalle sistematiche convenzioni del fumetto seriale.

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