Ant-Man – Recensione

Pubblicato il 12 Agosto 2015 alle 12:33

Uscito dal carcere, lo scassinatore Scott Lang è intenzionato a tornare sulla retta via ma la fedina penale sporca non gli consente di trovare un lavoro e di provvedere al mantenimento della figlioletta Cassie. Suo malgrado, Scott accetta allora di mettere a segno un altro colpo a casa dello scienziato Hank Pym e ruba una tuta equipaggiata con una straordinaria tecnologia riducente che lo trasformerà in Ant-Man.

Ant-Man

Avrebbe potuto essere un film di Edgar Wright. E’ questo il più grande rimpianto che Ant-Man si porta dietro. Il geniale, visionario, eccentrico regista inglese di spassosi film surreal-demenziali quali la trilogia del Cornetto e il cinecomic Scott Pilgrim vs. The World ha lavorato al progetto per anni gettando la spugna poco prima che iniziasse la produzione per divergenze creative con i Marvel Studios.

La casa di produzione rifugge approcci troppo personali e, ad esclusione di Guardiani della Galassia di James Gunn, ha sempre preferito registi meno autoriali, onesti mestieranti che garantiscono una coerenza stilistica tra i vari episodi della saga senza prendersi troppe libertà. Dopo le dimissioni di Wright, il ripiego è stato Peyton Reed che ha all’attivo trascurabili commediole mentre la sceneggiatura è stata rimaneggiata con l’apporto dello stesso attore protagonista, il comico Paul Rudd.

I trascorsi del regista e dell’interprete principale parlano chiaro. Non poteva che venirne fuori un film dalla marcata componente comica e con un tono molto puerile. La storia è tutta un primo atto convenzionale e prevedibile. Viene imbastito un facile parallelismo tra due relazioni padre-figlia giocando sulla dicotomia dei due Ant-Man fumettistici: Hank Pym e Scott Lang.

Una delle principali peculiarità nelle superproblematiche vicissitudini cartacee del supereroe Hank Pym è quella di aver usato violenza sulla moglie Janet. Per questo motivo, probabilmente, gli è stato preferito come protagonista Scott, fresco di rilascio, che intraprende il classico percorso di redenzione cercando di riconquistare la sua Cassie. Il film si concentra però maggiormente sulla relazione tra l’anziano mentore Hank Pym, un Michael Douglas ironico ed in gran forma, e la figlia Hope, una bellissima e tosta Evangeline Lilly che sembra però mantenere un ruolo puramente d’appoggio in attesa di diventare Wasp nei prossimi episodi.

Corey Stoll, protagonista della serie tv The Strain, è Darren Cross, cattivo che mescola l’Obadiah Stane del primo Iron Man con il Green Goblin di Spider-Man, il solito scienziato e capo della compagnia di Pym che vuole rubare la tecnologia di Ant-Man per scopi bellici diventando infine Yellowjacket. Anche qui tutto già visto. Tra i personaggi secondari spicca la verve comica di Michael Peña.

L’action scarseggia. La prima ora riserva ben poca adrenalina e tante formiche ammaestrate per divertire i bambini. Le dinamiche da heist movie sono somministrate col contagocce, la componente intimista è troppo dilatata nella parte centrale del film, la punteggiatura di gag comiche è continua e la scaramuccia tra Ant-Man e Falcon dura appena un minuto. L’unico guizzo lo concede lo scontro finale con Yellowjacket più per l’ambientazione, ironica risposta al destruction porn di un certo cinema catastrofista, che per la battaglia in sé. L’epilogo scade in un buonismo disneyano. Due scene durante i titoli di coda che soddisferanno certamente più di quella vista in Avengers: Age of Ultron.

Gli effetti digitali sono buoni, il 3D funziona benino, il lungo lavoro di pre-visualizzazione che era stato fatto con Wright si vede ma la montagna ha partorito un topolino, anzi, una formica. Si tratta di un’opera mediocre che denota una banalità narrativa desolante. Un compitino fatto e finito che potrà piacere solo agli spettatori a misura di Ant-Man: i più piccoli.

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