Jurassic Park di Steven Spielberg: 25 anni dalla prima volta

Pubblicato il 11 Giugno 2018 alle 13:00

Jurassic Park di Steven Spielberg compie venticinque anni.

Proprio mentre nelle sale la saga più giurassica della storia del cinema si prepara a cambiare per sempre in vista del prossimo Jurassic World 3 (Il Regno Perduto, in questi giorni in sala, pare voglia portare il franchise in una direzione completamente inedita e inaspettata), oggi 11 giugno 2018 l’originale Jurassic Park di Steven Spielberg festeggia il venticinquesimo anniversario.

Oggi, venticinque anni fa, l’11 giugno 1993, il parco giurassico ideato da John Hammond si preparava alla grande apertura invitando su Isla Nublar il paleontologo Alan Grant, la paleobotanica Ellie Sattler, l’avvocato Donald Gennaro e il matematico Ian Malcolm. Scopo della visita guidata organizzata per il quartetto è quello di mettere alla prova e analizzare la struttura di Jurassic Park, lo zoo giurassico popolato da dinosauri riportati in vita grazie a degli esperimenti scientifici che entro poche settimane avrebbe aperto al pubblico.

Ovviamente nulla va come previsto, soprattutto a causa della cupidigia umana, esattamente come sarebbe accaduto tanti anni dopo al nuovo parco Jurassic World, gestito dalla Claire Dearing di Bryce Dallas Howard: perché la grande saga fantascientifica creata da Spielberg e prodotta da Kathleen Kennedy sulla base dell’omonimo romanzo di Michael Crichton non è soltanto spettacolarizzazione, uomini mangiati da dinosauri ed effetti speciali (è anche questo: il regista si stava divertendo più che mai mentre contemporaneamente sul set di Schindler’s List muoveva un passo verso la maturità … e agli Oscar del ’94 Jurassic Park avrebbe vinto tre premi tecnici mentre Spielberg si sarebbe portato a casa la statuetta come miglior regista per il film sulla shoah), ma è soprattutto una favola ambientalista che ridicolizza le ambizioni smodate dell’umanità, talmente desiderosa di diventare Dio da scordarsi la fragilità della propria condizione mortale.

Bayona lo ha voluto sottolineare come non mai in Jurassic World 2, ma nel primo capitolo della saga il tema era già chiarissimo: se spendi milioni di dollari nel tentativo di resuscitare una specie animale che la natura ha voluto estinguere, è molto probabile che finirai divorato. Quindi, in caso doveste mai trovare una zanzara cristallizzata nell’ambra, fatevi un grosso favore e lasciatela lì dov’è.

Pietra miliare della fantascienza moderna, Jurassic Park agli inizi degli anni ’90 fu il primo blockbuster ad impiegare massicciamente la neonata tecnologia digitale nota come computer-generated imagery (per gli amici CGI), ideata dall’Industrial Light & Magic di George Lucas (che già nel 1977 aveva rivoluzionato il modo di concepire la settima arte con Star Wars) e ad integrarla, per volere di Spielberg, con i soggetti animatronici all’avanguardia degli Stan Winston Studios (prima di essere assunto dal regista Stan Winston era stato il truccatore di Terminator, Aliens, Predator e Terminator 2).

Attori umani in carne ed ossa, animatroni a sistema pneumatico e soggetti realizzati digitalmente interagivano davanti alle cineprese di Spielberg come non era mai stato possibile prima di allora, portando la qualità del frame (e di conseguenza la credibilità della storia narrata) a livelli di realismo inediti. Un film del genere, così ambizioso per livelli di scala (il T-Rex che coi suoi passi fa tremare la terra, muovendo il bicchiere: un’immagine chiarissima e immediata, uno dei momenti di cinema più grandi di sempre) e maestosità (ad oggi il campo lungo sulla vallata popolata da brachiosauri, enfatizzato dalle note di John Williams, è ancora capace di mozzare il fiato), non sarebbe stato possibile se i soggetti (i dinosauri) che avrebbero dovuto trasmettere quella meraviglia/terrore che Spielberg voleva comunicare al pubblico, fossero stati recepiti come irreali o artificiali. I dinosauri dovevano sembrare veri, o nessuno avrebbe pagato per vederli.

In una lettura meta-cinematografia si potrebbe dire che il cruccio di Hammond diventava quello del regista, e viceversa. Venticinque anni dopo è evidente che al secondo è andata molto meglio del primo.

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