Ready Player One di Steven Spielberg: Dio esiste ed è americano

Pubblicato il 30 Marzo 2018 alle 14:30

Ready Player One è disponibile nelle sale italiane dal 28 marzo.

Dio esiste ed è americano.

Questa una delle frasi più celebri del capolavoro di Alan Moore e Dave Gibbons, Watchmen, che negli anni ’80 rivoluzionò in tutto e per tutto il mondo a fumetti dei supereroi americani. Zack Snyder ne ha tratto un lungometraggio (con punti di forza e punti deboli, come spesso accade al buon Zack) e l’anno prossimo HBO ne realizzerà una mini-serie tv in dodici episodi scritta da Damon Lindelof (Lost, The Leftovers).

In Ready Player One, per strano che possa sembrare (sia HBO che DC sono Warner Bros.), non verrà fatta menzione né di Watchmen né dei suoi protagonisti (o forse si, ma a me è sfuggita fra le miriadi di citazioni e omaggi) ma quel Dio americano c’è eccome: e non solo è americano, ma ha anche la barba grigia, un paio di occhialetti sottili, un berretto calato in testa, settantuno anni sul groppone e un curriculum ineguagliabile.

Lo Squalo (1975), Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (1977), I Predatori dell’Arca Perduta (1981), E.T. (1982), Il Tempio Maledetto (1984) e L’Ultima Crociata (1989), Jurassic Park (1993), Schindler’s List (sempre 1993, perché Lui è Dio dopotutto), Salvate il Soldato Ryan (1998), Munich (2005) e La Guerra dei Mondi (sempre 2005).

Quanti altri artisti, nella storia del cinema, possono vantarsi di aver creato così tanti capolavori. Com’è anche solo possibile che tutte queste opere seminali e imprescindibili della cinematografia mondiale – opere capaci di intrattenere il pubblico più ampio, quindi commerciali, ma contemporaneamente di stabilire un linguaggio visivo che verrà poi ripreso dai registi che verranno dopo (ci sono voluti vent’anni prima che qualcuno escogitasse una maniera originale di raccontare la guerra e si discostasse dai dettami di Salvate il Soldato Ryan) – siano scaturite da una sola persona, un solo uomo?

Semplice. Perché Steven Spielberg non è un semplice uomo. Steven Spielberg è Dio. Il Dio del Cinema.

E con Ready Player One il Dio del Cinema ritorna ancora una volta per spiegarci che cos’è il cinema: visione, fascinazione, amore.

A nemmeno due mesi dall’uscita italiana di The Post (che circa trenta giorni fa si contendeva l’Oscar, vale la pena di ricordarlo) Lui sceglie di spogliarsi di ogni investitura e di ogni titolo ufficiale per ritornare primigenio, essenziale, un dio-bambino che sgrana gli occhi per lo stupore e la meraviglia e non più un maestro gentile e saggio con lo scopo di insegnare e mostrare la via più giusta. Solo Dio può cambiare così drasticamente, così repentinamente, così perfettamente. Indicatemi un altro regista in grado di passare da The Post a Ready Player One senza battere ciglio, e per penitenza giuro che mi esilio a guardare The Room per dieci volte di fila.

Il filo conduttore fra i due bellissimi film di cui Dio ci ha fatto dono nella sua immensa bontà, è senza dubbio l’amore incondizionato, genuino e immutabile per il Cinema: se The Post, nelle fasi finali, diventava un omaggio-prequel a Tutti gli Uomini del Presidente di Alan Pakula, Ready Player One – che è un film sull’amicizia e sul valore incommensurabile che l’amicizia assume nel contesto della vita mortale – a un certo punto si trasforma, da baraonda citazionista e nostalgica anni ’80 qual è, in affettuoso saluto a Stanley Kubrick (i due erano grandi amici: di Kubrick era il progetto iniziale di A.I.: Intelligenza Artificiale, e fu proprio Kubrick a chiedere a Spielberg di realizzarlo).

Non è un caso che la seconda prova che i protagonisti di Ready Player One devono affrontare per completare la loro missione, ambientata non solo nell’Overlook Hotel ma proprio all’interno dei fotogrammi di Shining, che Spielberg ri-allestisce inquadratura digitale per inquadratura digitale, sia la sequenza migliore dell’intera opera: nell’esuberanza orgiastica di rimandi, strizzatine d’occhio e omaggi alla cultura pop anni ’80, la scena di Shining è quella più emotivamente sentita da Spielberg, e infatti mentre si sviluppa si ha la fortissima sensazione che, se potesse, Lui la farebbe durare in eterno.

E’ tutt’altro che un film perfetto Ready Player One, per lo meno quando non siamo in Oasis (del mondo distopico del 2047, quello fuori da Oasis, non si capisce quasi niente) ma quando siamo dentro Oasis Spielberg e la sua camera digitale diventano davvero onniscienti e fanno cose mai viste, cose da perdere la testa. E’ poco schierato politicamente, poco critico socialmente, niente affatto satirico.

Perché a Lui non interessa tutto ciò. L’unica cosa che Lui vuole è mostrare come e quanto il cinema possa divertire chi va al cinema. E’ un incordare di muscoli della sala cinematografica nei confronti dei servizi di streaming on demand, è una dimostrazione di forza imperialista (Spielberg è un’industria), è una lettera d’amore all’essenza del cinema.

Ma è anche – si spera – quello che Gli Spietati di Clint Eastwood è stato per il western, e cioè una pietra tombale sulla rievocazione dei mitici anni ’80 iniziata da J.J. Abrams (un figlio di Spielberg) con Super 8 e deflagrata in questi anni. Con Ready Player One si arriva alla saturazione, e difficilmente ci sarà qualcuno che ne vorrà ancora. Certo, non solo anni ’80 (si parte dagli anni ’20 con King Kong, passando per i ’40 di Quarto Potere, i ’50 di Godzilla, i ’60 della serie tv di Batman e 2001: Odissea nello Spazio, fino ad arrivare all’altro ieri con Zootropolis e Overwatch) ma il microverso di riferimento è quello, ed è come se Dio avesse deciso di concederci un’ultima grandiosa abbuffata prima di sparecchiare la tavola.

Ora che siamo sazi, possiamo alzarci e proseguire. Per andare ovunque Lui voglia condurci.

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