Thor: Ragnarok di Taika Waititi – da Shakespeare a guardiano della galassia

Pubblicato il 26 Ottobre 2017 alle 14:00

Arriva in Italia il terzo capitolo della saga di Thor, che vede il ritorno di Chris Hemsworth e Tom Hiddleston, questa volta diretti del neozelandese Taika Waititi.

All’apparenza, la battuta più significativa del nuovo film dei Marvel Studios, Thor: Ragnarok, potrebbe essere quella pronunciata dal simpatico uomo di pietra blu, il “Ravenger” Korg (interpretato in motion-capture dallo stesso Waititi), che ad un certo punto avvertirà il protagonista: “L’unica cosa che ha senso, è che niente ha senso”.

Ma volendo andare oltre il guscio di battute (tantissime e divertentissime) col quale Taika Waititi ha confezionato il suo nuovo film (che rappresenta il debutto nel mondo dei blockbuster dopo tanti piccoli successi indie), diventa subito chiarissimo quanto profonda e intelligente sia l’intenzione del regista: spogliare dell’aurea seriosa l’onnipotente eroe che abbiamo imparato a conoscere nei precedenti capitoli del MCU e trasformarlo in qualcosa di più umano, di più fallace, qualcosa di più vicino al pubblico.

E allora, da questo punto di vista, la battuta chiave del film diventa un’altra: “La vita è fatta di cambiamenti”. E’ lo stesso dio del tuono a recitarla, come monito al fratellastro Loki, reo di averlo tradito per l’ennesima volta. Forse l’ultima, però.

Perchè in Thor: Ragnarok tutto è in costante cambiamento, specialmente i protagonisti. Perfino la trama principale (mentre incombe il Ragnarok, la fine degli dei, Hela, la primogenita di Odino, ritorna dall’esilio per impadronirsi di Asgard), che ad un certo punto devierà prendendo tutt’altra direzione e trasferendosi in uno spazio completamente diverso da quello a cui siamo stati abituati nei primi due Thor (il fantasy alla Signore degli Anelli qui diventa uno sci-fi che è uno strano mix fra Guardiani della Galassia, Dune e Mad Max).

La narrazione quindi diventa il mezzo che Waititi sfrutta per raggiungere i suoi scopi, cioè porre i protagonisti nelle condizioni ideali per andare incontro a questi cambiamenti: e così, mentre il regista parte dalle atmosfere shakespeariane (quelle sulle quali Kenneth Branagh aveva impostato il suo Thor) per poi approdare su territori completamente diversi, Thor da dio del tuono diventa zio del tuono, perde il martello, gli vengono tagliati i capelli, gli viene pitturata la faccia, gli viene data un’altra armatura, e inizia così tutto un processo di cambiamento/maturazione che coinvolgerà anche chi gli sta intorno (Hulk/Bruce Banner, Loki, la Valchiria dell’ottima Tessa Thompson, alla fine anche lo Skurge di Karl Urban).

Il timbro umoristico, scatenato e coloratissimo che Waititi ha scelto per il suo Thor (in netta contrapposizione al fantasy molto dark di Thor 2) è scaltro a non spingersi verso il gratuito, e così facendo non solo non rischia mai di soffocare l’introspezione ma addirittura la esalta quando la comicità viene messa da parte. In questo sapiente bilanciamento di azione, eroismo e dramma gli dei della saga Marvel vengono umanizzati come mai prima d’ora, e fare il tifo per loro (nonostante debbano affrontare ancora una volta un nemico assolutamente monodimensionale, e non per colpa di Cate Blanchett) diventa ancora più facile e naturale.

L’allucinato mix di fantasy, sci-fi, mitologia Nordica e peplum alla Ben-Hur sulla carta non avrebbe dovuto funzionare, ma Waititi dimostra di conoscere la sua arte e regge tutto insieme più che dignitosamente, permettendosi addirittura il lusso di inserire qua e là alcuni sotto-testi politico/religiosi che potrebbero rimandare lo spettatore più attento ai notiziari del nostro quotidiano (coscienza sociale, schiavitù, classismo, rivolta popolare, esodi). Discorsi estremamente maturi e soprattutto inediti per il Marvel Cinematic Universe.

Quando la polvere dell’imminente Infinity War si sarà posata, si potrà ripartire da questa nuova incarnazione di Thor. Ma soprattutto si dovrà ripartire da Taika Waititi.

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