Dunkirk di Christopher Nolan: il film del secolo

Pubblicato il 1 Settembre 2017 alle 13:00

Il nuovo film di Christopher Nolan è finalmente sbarcato anche in Italia.

Tutto è relativo. Perfino il tempo. Soprattutto il tempo.

Einstein, per descrivere la relatività, spiegava che ognuno percepisce il tempo in base al contesto che sta vivendo in quel preciso momento: con la sua eterna sagacia, faceva notare di come a un uomo che passi un’ora in compagnia di una bella ragazza, quell’ora sembrerà durare un solo solo minuto; viceversa un altro uomo, che però venga torturato per un solo minuto, avrà la sensazione che quel minuto sia più interminabile di qualsiasi noiosa ora.

La relatività manipola il tempo, ma la relatività siamo noi. Noi, con la nostra percezione dello spazio, del tempo, delle emozioni soprattutto. E Christopher Nolan questo lo sa benissimo. Lo ha sempre saputo.

Fin da Memento, quando il tempo diventava un antagonista insuperabile che scombussolava la bussola mnemonica del protagonista. In Insomnia il tempo confondeva notte e giorno, giorno e notte, luce e oscurità, etica e morale. In The Prestige il tempo veniva scandito in tre intervalli, in tre passaggi, nei tre momenti topici del trucco di magia (e il film intero diventava un lungo trucco di magia: fino ad oggi quello sulla faida fra i maghi di Bale e Jackman era da considerarsi il migliore in assoluto fra i film del regista britannico).

Poi c’è stato Inception, dove il tempo non contava più (si restringeva o si dilatava a seconda della profondità del sogno) e infine Interstellar, in cui il tempo era qualcosa di vivo, di mutevole, di soggettivo.

Ed infine Dunkirk, dove il tempo è tutto. E siccome tutto è relativo, Nolan trasforma il film in un’opera epica di puro relativismo. Non si è mai visto niente del genere prima d’ora, e difficilmente rivedremo qualcosa di simile in futuro.

Per Spielberg la guerra può essere eroismo (Salvate il Soldato Ryan), per Kubrick è fanatismo  (Full Metal Jacket, Orizzonti di Gloria), per Coppola è degenerazione (Apocalypse Now), per Cimino è febbre (Il Cacciatore). Nello stabilire le proprie tesi attraverso i loro immensi capolavori, tutti questi registi stabilirono anche uno stile visivo utile a spiegare la propria opera, a decifrarla. In particolare Spielberg, che con le sue scene di guerra segnò una linea di separazione fra ciò che era venuto prima di lui e ciò che sarebbe dovuto essere dopo.

In Dunkirk, Nolan non solo rinuncia alle tante e diverse ideologie politiche e filosofiche delle pietre miliari del genere bellico (spiegando come la guerra, per lui, sia una sola cosa: egoistica sopravvivenza) ma va perfino oltre alle regole registiche stabilite fino ad oggi.

Ed è per questo che il film è un capolavoro: rinuncia a ciò che è stato fatto prima per esplorare nuove possibilità.

Non c’è sangue, in Dunkirk. I corpi non vengono maciullati dalle bombe, i proiettili non deformano i volti dei soldati. Nolan non è mai stato un regista violento a livello grafico, ma la scelta di non essere violento in un film di guerra (andando contro i dettami di Salvate il Soldato Ryan) è assolutamente peculiare: a dover subire violenza è il pubblico, non tanto i personaggi nello schermo, e per bucare lo schermo i proiettili dei nemici (nemici che non si vedono mai, una scelta assolutamente geniale che rievoca il già citato Orizzonti di Gloria e aumenta il senso di tensione) non bastano; per bucare lo schermo c’è bisogno di creare un’esperienza sensoriale.

Dunkirk è soprattutto questo: un’esperienza sensoriale.

Il tempo perde significato (ci sono tre tempi suddivisi in tre narrazioni: spiaggia, dove la storia dura una settimana; mare, dove la storia dura un giorno; cielo, dove la storia dura un’ora; e queste tre narrazioni si inseguono l’una con l’altra, si incastrano, si amalgamano, e la successione temporale scompare) e, come i soldati della storia, al pubblico non resta che affidarsi alla vista o all’udito: gli spari dei nemici sono tuoni nei timpani, i motori degli aerei anticipano le tempeste di bombe, lo sciabordio delle onde suggerisce il cambio di marea.

Non c’è personificazione, poi, e questa è un altro dettaglio che mi ha affascinato. Nessuno dei (tanti) protagonisti ha un background stabilito, una cosa rarissima tanto al cinema quanto nella narrazione in generale. Non conosciamo i loro nomi, a volte, non sappiamo da dove vengano, cosa facciano nella vita (ricordate in Salvate il Soldato Ryan? L’occupazione del personaggio di Tom Hanks era fonte di scommesse nella sua compagnia), cosa sognino di diventare un giorno.

Nolan spoglia i personaggi di ogni futile dettaglio e di ogni tralasciabile orpello (una sorta di rito che ha compiuto anche su se stesso, obbligandosi a scrivere una sceneggiatura striminzita di poco più di 70 pagine che affidasse tutto alle immagini e nulla ai dialoghi) e trasforma le sue cineprese negli occhi di Dio: è ovunque, dalla spiaggia ai ponti delle navi, dai moli alle cabine degli aerei, e riprende ogni cosa con uno straordinario e rarissimo tocco di eleganza mista a frenesia.

Nessuno aveva mai filmato la guerra in questo modo. Nessuno probabilmente aveva mai neanche pensato che fosse possibile filmarla in questo modo, mescolando la raffinatezza di Malick in La Sottile Linea Rossa con le accelerazioni ipercinetiche di Tony Scott in Top Gun (fate attenzione alle scene con gli aerei in Dunkirk, perché non troverete niente di simile da nessun’altra parte) per conferire ad ogni singola inquadratura una potenza inaudita.

Come sono potenti le interpretazioni, da Tom Hardy, che recita con un occhio solo (ha il volto coperto dal casco di aviatore e Nolan lo inquadra leggermente da destra, lasciando in evidenza soltanto l’occhio sinistro dell’attore) a Kenneth Branagh, ufficiale coraggioso, a Cillian Murphy, eroe spezzato.

Com’è potente, del resto, la colonna sonora di Hans Zimmer: composta seguendo la scala Shepard, è un cane rabbioso che addenta l’osso e non lo lascia andare dal primo istante fino all’ultimo, e la tensione nei timpani dello spettatore sembra non scemare mai, neanche per un istante. Ha la sonorità di un orologio, che ticchetta all’infinito. E il film sembra infinito, perché il tempo qui non esiste.

Non esistono neppure i punti di vista; o meglio, ce ne sono talmente tanti che il pubblico inizia a confonderli. E dato che tutto è relativo ciò che è per qualcuno per qualcun altro può non essere (si veda la scena dell’ammaraggio, che dal punto di vista di Tom Hardy rappresenta un saluto mentre dal punto di vista del suo collega è tutt’altro). In questo senso c’è un po’ di Rashomon di Kurosawa, nel lavoro di Nolan, ma ovviamente qui il vero obiettivo è confondere il pubblico per farlo sentire in costante pericolo, in costante necessità di soccorso. Proprio come i 400.000 uomini abbandonati a loro stessi sulla costa di Dunkirk.

Alcuni questo film lo hanno definito il film del secolo. O almeno, uno dei film del secolo. Insieme a Mulholland Drive, a Mad Max: Fury Road, a The Tree of Life, a Il Petroliere. Io mi trovo d’accordo, nonostante molti altri sostengano il contrario. Oggi come oggi del resto, un capolavoro, inteso come un capolavoro vero, è talmente raro che quando arriva si potrebbe far fatica a riconoscerlo come tale. Alcuni, forse, dovranno rivederlo una seconda o una terza volta per accettare questa eventualità. Magari hanno solo bisogno di tempo.

Ma tutto è relativo, no? Perfino il tempo. Soprattutto il tempo.

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