Recensione – It Follows

Pubblicato il 13 Luglio 2016 alle 17:30

Per la diciannovenne Jay, invaghita di un ragazzo più grande, la prima esperienza sessuale da magica si trasforma immediatamente in un incubo senza fine: una strana e inconoscibile entità che prima perseguitava il suo amante, adesso è stata trasmessa a lei. It, la cosa, lui, l’essere misterioso, adesso la seguirà fino a che non riuscirà a prenderla, e Jay deve trovare un modo per sopravvivere.

Seconda opera del regista David Robert Mitchell, che ha debuttato nel 2014 al Festival di Cannes e dopo aver strappato consensi unanimi dalla critica di tutto il mondo arriva finalmente in Italia. Mitchell aveva già dimostrato di saper esplorare il mondo degli adolescenti nel poetico The Myth of the American Sleepover, che raccontava in maniera intelligente e profonda l’ultima settimana delle vacanze estive di quattro ragazzi di Detroit, tra contrasti e amori platonici.

Con It Follows (che strappa applausi già dall’emblematico e azzeccatissimo titolo, che strizza l’occhio e all’It di Stephen King e all’horror fantascientifico They Nest, di Ellory Elkayem) Mitchell da dottor Jekyll diventa Mister Hyde, e ritorna a Detroit, e ritorna all’adolescenza, ma questa volta si sposta sul lato oscuro della luna.

La pellicola, fortemente metaforica e che si inchina al giudizio interpretativo, esplora sapientemente le ansie legate agli anni del liceo, concentrandosi in particolar modo sulle angosce e gli affanni portati dalla scoperta della sessualità. In chiave horror, naturalmente.

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Partendo da un sogno ricorrente che il regista aveva ai tempi del college (pover’uomo), e lasciandosi ispirare dal racconto breve Casting The Runes, scritto nel 1911 dallo scrittore inglese M.R. James (che nel 1957 fu adattato nella pellicola La Notte del Demonio, di Jacques Tourneur), Mitchell ci trascina in un incubo senza fine stilisticamente impeccabile a dal ritmo contemplativo, meditabondo.

La maledizione che è stata trasmessa a Jay, e che Jay può a sua volta trasmettere attraverso l’atto sessuale, è una geniale rilettura della rivoluzione sessuale degli anni ’60, nonché intelligente riflessione sulle malattie sessualmente trasmissibili. Eppure si va oltre, perché nella vita reale, quando contrai l’HIV o altre malattie legate al sesso, è buona maniera astenersi dal continuare ad avere rapporti: qui accade l’esatto contrario, invece, e il sesso e l’amore diventano non solo esaltazione della vita e della voglia di continuare a vivere, ma anche protezione dalla morte.

C’è anche la rottura del tabù che a quell’età il sesso rappresenta: come dicono gli assassini nei film, “dopo la prima volta è tutto più facile”, e infatti Jay dopo la sua prima volta si lascia andare a innumerevoli rapporti sessuali – in una occasione, pur di liberarsi da It, con tre partner contemporaneamente – comportamento che sta ad indicare una sola cosa: e cioè che il sesso è ansia solo la prima volta, e che da lì in avanti è naturalezza e ripetizione.

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La rappresentazione dell’adolescenza e della vita di quartiere è completamente spogliata da ogni romantico sentimentalismo di spielberghiana memoria – tanti sono i riferimenti ad Halloween di Carpenter, dagli isolati silenziosi al lento ma determinato incedere di It, che ricorda chiaramente l’assassino Michael Myers – e tutto sembra ammorbato da un tramonto grigio, che sussurra e suggerisce l’arrivo incombente della fine di un’era, o meglio di un’età.

La periferia di Detroit riesce benissimo in questo senso, e contestualizza la perdita e l’ansia con case abbandonate e in rovina che sembrano essere state colpite da incantesimi sinistri. La riuscitissima fotografia di Mike Gioulakis riflette le luci del crepuscolo, entro le quali qualcosa, It, si annida. L’unico barlume dorato e lucente è la protagonista, interpretata da un’ottima Maika Monroe, che sembra un faro nella notte buia: l’unica nave nell’oceano, però, non è una nave, ma It, che si dirige costantemente verso di lei.

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La colonna sonora di Rich Vreeland è una discesa elettronica nell’orrore che destabilizza e affascina, e calza come un guanto bianco ad ogni scena.

La regia di Mitchell, poi, è ugualmente perfetta. Mai soggettiva, la cinepresa contempla ciò che accade con occhio freddo e distaccato, dai due eccezionali piani sequenza a 360°, ai campi lunghi che diventano composizioni pittoriche all’interno delle quali la folla si muove, nascondendo It, che avanza verso di noi lentamente e che a noi lentamente si manifesta.

C’è un momento durante il quale Jay, al limite del terrore e sempre più perseguitata, si estranea dalla realtà staccando fili d’erba e allineandoli sulla propria coscia, lasciata nuda da un paio di pantaloncini cortissimi. Mitchell indugia a lungo su quel particolare, su quei verdi filamenti in netto contrasto sulla pelle bianca e rosea della ragazza, ma non c’è nulla di amorevole in quell’immagine: tutto sembra strano, alieno, quasi malvagio, come ogni cosa che la circonda, del resto.

David Robert Mitchell, con It Follows, ha creato un film potente ed evocativo, che inquieta (il che è molto peggio dello spavento commerciale al quale l’horror moderno ci ha tristemente e banalmente abituato) e soprattutto fa riflettere. Una voce fuori dal coro, questo It Follows, che si erge con prepotente eleganza sopra tutti i rivali pseudo-commerciali che straripano dai bordi di un genere – quello horror – ormai stra-abusato e colmo di ripetitivi e stancanti cliché.

Se prendiamo in considerazione la data di uscita italiana, tralasciando l’esordio a Cannes, mi sento di affermare che It Follows è il miglior horror degli ultimi 36 anni. Ricordate quale altra pellicola inquietante (priva dei noiosissimi jump-scare) vide la luce 36 anni fa?

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