Gus Volume 1: Nathalie – Recensione. Il western tinto di rosa di Christophe Blain

Pubblicato il 1 Dicembre 2014 alle 10:30

Quando Cristpohe Blain disegnò Gus, John Wayne, lassù, nel paradiso dei veri duri, gettò ai rovi la sua stella di latta. Poi ordinò un giro di whisky e si fece una grossa risata!

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Questo è il sentimento che ti resta dentro quando volti l’ultima pagina di Gus (Volume 1, Nathalie), bande dessinée edita da Dargaud,  fuori da ogni canone, portata in Italia da Bao Publishing.
Questo, assieme alla voglia di ricominciarlo da capo, o quantomeno di riassaporarne con gli occhi le sfavillanti vignette.

Per parlare di Gus, infatti, non si può non partire dal suo strabiliante disegno: paesaggi sconfinati, muti, enormi, selvaggi. Panorami divisi quasi a metà tra una terra rosso bruciata e un cielo turchese, spezzato di tanto in tanto dalle maestose torri di roccia che sono il Colosseo e il Partenone di quella mitica regione degli Stati Uniti che va dai deserti dell’Arizona alle foreste vergini del Colorado. Così appare la prima vignetta di Gus e non suonerebbe affatto male un epico sottofondo musicale alla Ennio Morricone.

Con tecnica squisitamente cinematografica, poi, l’occhio del lettore viene accompagnato nel profondo di questo spazio lunare e fatto entrare in un’ angusta e buia capanna. Dall’immensità della natura alla piccolezza umana. E’ il covo di tre banditi: Gus, Gratt e Clem. E questa è la loro storia.

Quello di Gus è un disegno d’autore, personalissimo, in cui la magnificenza dei paesaggi naturali fa da contraltare a figure di uomini e donne tremolanti ed evanescenti, eppure capaci di trasmettere con i loro visi minuti e morbide silhoeutte tutte le sfumature della fisionomia umana.  Personaggi disegnati con tratti ombrosi, ondeggianti, filiformi, simili quasi a riflessi sull’acqua, mobili, in continua trasformazione, proprio come i loro pensieri e i loro sentimenti.

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La sobrietà dell’atmosfera Western si lega poi perfettamente ai dialoghi, asciutti ed essenziali, ai veloci scambi di battute pungenti tra i tre compagni banditi, così come ai romantici e goffi tentativi di Gus di fare breccia nel cuore dell’amata del momento.
Sì, perché là dove ci aspetteremmo solo piogge di proiettili e danze di indigeni bellicosi, scopriamo invece che il vero perno di Gus non sono le rapine rocambolesche, che pure occupano le indaffarate giornate dei protagonisti, bensì le passioni irruenti che si agitano nei loro cuori rudi.

Nel cuore di Gus, maestro del flirt e del corteggiamento, sognatore, talvolta spietato, talvolta ingenuo, il cui spropositato naso sembra il mirino attraverso cui individuare sempre nuove donzelle da conquistare. In quello di Gratt, irruento, impacciato, avventato, discepolo e insieme rivale del maestro. E infine in Clem, padre di famiglia, serio e ligio al proprio dovere (criminale o legale) eppure non privo di debolezze, alcune delle quali hanno languidi occhi azzurri ed un delizioso accento messicano.

In quest’opera in cui si mescolano epopea dell’avventuriero yankee, commedia e romanzo sentimentale, un ruolo di primaria importanza è rivestito dalla psicologia dei personaggi, dalle loro riflessioni e dai loro moti interiori, che prendono forma in molteplici vignette, nuvoloni di pensieri, sdoppiamenti di personalità, doppie e triple coscienze visibili soltanto al lettore. Attraverso di esse ci è possibile comprendere come, dietro alle azioni spesso goffe di quegli uomini rudi, si nascondano invece meditazioni sofferte, ribaltamenti e rivolgimenti interiori, decisioni scelte e poi scartate e poi riacciuffate di nuovo, come sempre accade nell’uomo quando è sconvolto da quel maremoto che si chiama Amore.

E che si tratti del sentimento forte, profondo, incancellabile che lega Gus alla bella Nathalie, venuta apposta dalla città per incontrarlo, o che siano le fugaci passioni per le tante sirene ammaliatrici che popolano la leggendaria El Dorado, città delle donne sempre libere, nulla sembra avere più potere sui tre protagonisti, che affrontano incuranti pallottole e scazzottate, ma tremano di terrore al pensiero di un tacco e una gonna che li attendono per regolare i conti.

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Oltralpe già qualcuno aveva pensato di far risuonare il tintinnio degli speroni sulle praterie bianche della letteratura a fumetti. Era il lontano 1946 e Maurice de Bevere, in arte Morris, dava i natali al mito di Lucky Kuke, il cowboy dall’aplomb immacolato che incarna l’ideale di paladino della frontiera, silenzioso e solitario. Quello di Lucky Luke, però, è un Fra West spesso ridicolizzato e parodiato, estremizzato nelle sue schematiche opposizioni buono-cattivo, giusto-sbagliato.

Con Gus, invece, non ci sentiamo al cospetto di una parodia, una demitizzazione, quanto forse di un completamento, la metà di quel cielo western che ci siamo accorti mancare solo ora che il genio di Christophe Blain ce l’ha fatta conoscere.

Una via del tutto inedita di affrontare un genere che si credeva esplorato in ogni angolo, ma che in realtà era carente proprio nel suo livello più semplice, diretto, umano: quello dei sentimenti e delle relazioni.

Dopo aver esplorato il mondo del fantasy con La Fortezza (Donjon Potron-Minet) , dopo aver solcato i mari con Isaac il pirata (Isaac le pirate) , questo giovane, prolifico autore, dà nuova vita anche al genere Western, non tradendolo nei suoi valori fondamentali, bensì ampliandone i panorami, proprio come fa nelle sue splendide vignette paesaggistiche.

Gus, diario romantico di un trio di banditi pistoleri, è efficace, dinamico, umoristicamente irresistibile, perché compie un’indagine schietta e sincera della sfera sentimentale. Una lezione validissima, tanto ai tempi dell’Ultima Frontiera come ai giorni nostri.

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