Kingdom di Kim Seong-hun | Recensione

Pubblicato il 27 Gennaio 2019 alle 16:00

La serie è attualmente disponibile per lo streaming sulla piattaforma Netflix.

Gli zombi come metafora di rivoluzione nella sorprendete mini-serie Kingdom, primo show sud-coreano prodotto dal colosso dello streaming Netflix: come ne Il Ritorno dei Morti Viventi di Dan O’Bannon la figura del morto vivente supera il simbolismo romeriano di critica sociale e si fa ribelle, non più piaga ma sommossa popolare, unica speranza per un regno conservatore che, a forza di voler conservare, ha iniziato a marcire.

Ambientato nel periodo Joseon medievale della Corea, Kingdom racconta la storia di un principe ereditario (ma illegittimo) che si ritrova ad indagare su una misteriosa piaga che si sta diffondendo in tutto il suo paese. Il sovrano è sempre più debole e indifeso, al cospetto di una corte fatta di nobili ingannatori, intrighi e cortigiani che bramano il potere. si contendono il potere. Quando muore a causa di un’improvvisa malattia, un ambizioso ministro, padre della nuova regina, decide di tenerlo in vita chiedendo l’aiuto di un medico famoso per la sua arte da erborista.

La medicina però trasforma il sovrano in una creatura mostruosa, dai tratti vampireschi, dormiente nelle ore diurne e bramosa di carne al calar della luna: il non-morto viene confinato negli appartamenti reali, nella speranza che questo basti a salvaguardare il palazzo e la città.

Nel frattempo, mentre a corte incalzano questi games of throne, Lee Chang, figlio illegittimo che il sovrano ha avuto con una concubina, è determinato a dimostrarsi come degno successore di suo padre, e come un Amleto di katana munito cercherà di scoprire cosa ne è stato del re: a differenza della tragedia shakespeariana, però, le indagini porteranno il protagonista a diventare il primo testimone della diffusione di un morbo letale, in grado di tramutare le persone in zombie.

Traendo ispirazione da una misteriosa epidemia che devastò il paese nel diciannovesimo secolo, il regista Kim Seong-hun ricostruisce con minuziosa peculiarità l’epoca di riferimento, dai costumi ai set, dalle attrezzature alle location (sia naturali che architettoniche), mentre la sceneggiatura di Kim Eun-hee sviluppa con cura svolgimento e personalità dei protagonisti (tralasciando quasi completamente, purtroppo, gli antagonisti, che rimangono bidimensionali dall’inizio alla fine). Le reminiscenze della poetica di Guillermo Del Toro, ovvero la mescolanza fra l’elemento fantasy-horror e la Storia con la s maiuscola, ben si prestano al concept di base (un webcomic) e soprattutto ai modi di fare tipicamente orientali (anzi, tipicamente coreani) della produzione.

Fosse stato più parossistico sarebbe anche potuto essere riconducibile alle opere della filmografia di Takeshi Miike, ma per la sua solida, stratificata e precisissima commistione di generi fa pensare più direttamente a Goksung, esorbitante opera di Na Hong-jin che è fra i migliori horror del XXI secolo (e che vi consigliamo seduta stante, qualora ve lo foste perso).

Punto di forza principale è sicuramente il sotto-testo politico succitato, scaltro, nervoso e affamato. Una seconda stagione ha già avuto l’okay di Netflix, con le riprese previste per febbraio 2019: il finale un po’ affrettato chiede rumorosamente nuovi episodi, e noi ci uniamo al coro.

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