Suburra: la serie Netflix | Recensione in anteprima dei primi due episodi

Pubblicato il 21 Settembre 2017 alle 15:00

Abbiamo visto in anteprima i primi due episodi della nuova serie crime targata Netflix. Ecco la nostra recensione.

Dopo Romanzo Criminale e Gomorra la Cattleya, che in questi anni ha inaugurato una profonda ristrutturazione della serialità  italiana con l’appoggio di Sky Cinema, cerca la conferma con Suburra, questa volta coadiuvata dal colosso dello streaming mondiale, Netflix.

C’era tanta attesa nei confronti di questa serie: non solo perché si proponeva come aspirante al trono di Gomorra (è importante allargare il panorama di un filone narrativo proponendo più prodotti), non solo perché prequel dell’ottimo film omonimo del 2015 diretto da Stefano Sollima, ma anche perché appunto per la prima volta la serialità italiana grazie a Suburra prova ad abbracciare il futuro dell’intrattenimento: la partnership con Netflix significa tanto non solo a livello produttivo, ma soprattutto a livello di visibilità (non a caso i primi due episodi della serie, gli unici diretti da Michele Placido, sono stati presentati durante il Festival di Venezia appena trascorso).

Finora la missione sembra riuscita, se non interamente per lo meno in parte.

Tutta la nuova era della televisione ha avuto e continua ad avere come perno centrale il tema del potere (gli americani insegnano: pensate ai Soprano, ad House of Cards, allo stesso Game of Thrones) e con Suburra Netflix prosegue su questa strada, presentando una Roma capitale corrotta spartita fra potere politico, religioso e ovviamente criminale.

La trama è semplice, e molto simile a quella del film: per Sollima la triade di poteri voleva allestire una Las Vegas marittima, qui invece l’obiettivo è il progetto di un porto ad Ostia. Ma ovviamente, come si conviene ad una serie, in confronto alla controparte cinematografica i dettagli sono molti di più, tutto è più approfondito e le sottotrame sono vaste e soprattutto molteplici (così tante che, almeno nei primi due episodi, la necessità di inserirle tutte va spesso a discapito del ritmo).

C’è il giovane ambizioso che rimane incastrato in un mondo pericoloso, c’è il rapporto padre/figlio, ci sono gli zingari (non quelli sporchi delle campagne britanniche dipinti da Guy Ritchie o visti più recentemente in Codice Criminale: questi zingari sono ricchissimi e ancora più potenti), c’è la politica, c’è il Vaticano. C’è anche un po’ di Sergio Leone, con i tre protagonisti (Borghi di gran lunga il migliore) che a causa di una sporca coincidenza si ritroveranno a reinterpretare le parti del buono, il brutto e il cattivo: come nel seminale western con Eastwood, Van Cleef e Wallach anche qui tre rivali saranno costretti a collaborare per raggiungere un obiettivo comune (che porterebbe loro profitto e potere, ovviamente).

Oltre i problemi di ritmo, il vero tallone d’Achille della serie è il cast: paradossalmente, nonostante i tanti nomi altisonanti, la maggior parte degli attori coinvolti (escluso il già citato Borghi, che riprende il ruolo di Numero 8 che già all’epoca gli calzava come un guanto) appare molto sottotono. Un passo indietro rispetto a Romanzo Criminale e Gomorra, che puntavano più sulla recitazione che sull’originalità della trama.

Il verdetto definitivo è rimandato, eppure per ora è lecito aspettarsi dei buoni risultati. Speriamo che i restanti episodi confermino quanto di buono mostrato dai primi due correggendo nel frattempo i pochi ma evidenti problemi.

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