Verso una nobile morte di Shigeru Mizuki – Recensione Rizzoli Lizard

Pubblicato il 31 Ottobre 2013 alle 11:30

Rizzoli Lizard pubblica in Italia l’epico manga sulla guerra dell’illustre mangaka Shigeru Muzuki

Verso una nobile morte

Storia e Disegni: Shigeru Mizuki

Casa Editrice: Rizzoli Lizard

Provenienza: Giappone 1973 ( volume unico)

Target: Seinen

Genere: Drammatico, storico

Prezzo: € 22,oo, brossura con alette, 17 x 24 cm, pp. 368 in b/n

Data di pubblicazione: 28 Agosto 2103

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Il novanta per cento degli eventi narrati in Verso una nobile morte è realmente accaduto” afferma l’autore Shigeru Mizuki, uno dei padri fondatori del manga moderno, un superstite della seconda guerra mondiale, ma soprattutto un sopravvissuto all’ordine della nobile morte.

Pubblicato in Giappone per la prima volta nel 1973, arriva finalmente in Italia Verso una nobile morte, vincitore del premio Héritage Essentiel al Festival del fumetto di Angoulême, cronaca fedele e toccante degli ultimi giorni vissuti da un distaccamento dell’esercito imperiale giapponese di stanza su un’isola della Papua Nuova Guinea. I soldati, pur riluttanti, sono costretti per la ragion di Patria a obbedire al dictat gyokusai, la cosiddetta nobile morte: una carica suicida in onore della Patria, alla quale Mizuki sfugge, per un caso fortuito, e che sarà ispirazione per questa sorta di diario delle memorie.

Verso una nobile morte è il racconto sul posto dell’assurdità e disumanità della guerra, dal punto di vista di un distaccamento di soldati che occupano una parte dell’isola New Britain. Ognuno di essi racconta una storia di fame, miseria, paura, dolore. Le loro fattezze sono quasi tutte simili: fratelli del medesimo destino, sembrano figli di una sola madre. Sono solo le loro azioni a distinguerli: c’è chi fa ritratti, chi costruisce accampamenti, chi è costretto a commissioni inutili per ufficiali superiori che non fanno altro che menare le mani e umiliare. C’è chi non è mai stato con una donna e chi pensa solo al cibo; c’è chi stringe amicizie e chi si isola, c’è chi sogna e chi si arrende.

L’inevitabilità della morte incombe su tutto, è sempre dietro l’angolo e spesso non arriva per colpa della guerra ma per banali fatalità. Appena giunto sull’isola, il reggimento comandato dal tenente colonnello Tadokoro non trova alcuna resistenza e data l’amenità e bellezza del luogo, lo crede un Paradiso… Ma la morte non ha bisogno di una mitragliatrice né di una bandiera americana: prende le giovani vite dei soldati nei modi più subdoli. Il primo a morire è schiacciato da un albero che sta trasportando, ucciso a causa delle sue condizioni indebolite dalla febbre dengue, nonché dallo stress e dalla malnutrizione. Un altro viene attaccato, senza testimoni, da un alligatore e un altro ancora muore in modo orribile, rimanendo strozzato da un pesce che ha ingoiato per intero per colpa della fame.

Poi giunge anche il nemico: le inutili rappresaglie che decimano il reggimento portano infine alla decisione di ricorrere alla nobile morte, per rallentare in qualche modo l’avanzata. Non tutti gli uomini però sono così desiderosi di morire come viene loro comandato e un buon numero di loro riesce a sopravvivere alla prima carica suicida. I sopravvissuti fanno ritorno alla base di divisione, solo per scoprire che le loro morti sono già state segnalate alla sede centrale. Per loro non c’è speranza: abbattuti e demoralizzati , gli ottanta e passa uomini rimasti, alzano la voce per cantare e caricare il nemico in una ultima inutile carica. Dalle loro labbra si alza lo stesso canto che nelle prime pagine si sente per bocca delle prostitute di un bordello che i soldati visitano prima di giungere sull’isola: “Perché? Perché questo lavoro infame?”

L’ ultimo a morire è Maruyama , che in uno dei primi capitoli si era offerto di disegnare i ritratti di tutti. I tratti del suo viso sono grottescamente distorti: dalle sue labbra gonfie e sanguinanti, esce ancora qualche nota. Si alza in piedi, si fa strada tra i compagni morti con una risata tragica; poi si ferma di fronte a un carro armato americano, viene colpito dal fuoco di artiglieria e cade. Muore per ultimo e i suoi pensieri in quel momento sono i pensieri di tutti i compagni che prima di lui hanno detto addio alla vita. Il suo corpo si unisce a quelli dei suoi amici: il tratto del disegno cambia. Sono tutti diversi adesso: ognuno ha una sua consistenza, un suo valore come se la nobile morte li avesse trasformati. Poi però l’immagine si ingrandisce e quei corpi diventano mucchi  di ossa e, infine, i resti frantumati, a malapena riconoscibili.

La morte è morte. Non c’è gloria alcuna.

Ed è proprio questo il messaggio che Mizuki intende trasmettere in questa sorta di diario postumo: l’insensatezza della guerra, l’assurdità di una morte che non ha nulla di eroico. Lo smantellamento del mito del suicidio glorioso.

I soldati muoiono uno dopo l’altro, da un istante all’altro; nessuna scena è edulcorata, non c’è lieto fine. Perché non è l’estro dello scrittore a decidere, ma il fato ineluttabile ad aver tracciato quei disegni, istantanee della memoria.

Lo stile artistico in cui le tavole sono rese è molto particolare: quasi stridente la dissonanza tra i disegni dei protagonisti, grezzi al punto tale che riuscire a distinguere un soldato dall’altro si rivela impresa ardua, e gli sfondi naturalistici, così belli, nitidi e descritti nel particolare da sembrare quasi cartoline stampate in bianco e nero. Una discrepanza comunque voluta, geniale. L’uomo è ritratto nella sua miseria di piccolo essere sempre uguale a se stesso, vittima di una guerra che lui stesso ha scatenato. La natura invece, bellissima, eterna, intoccabile. Muta testimone, come la bella luna del Leopardi della stoltezza dell’uomo.

Infine come non soffermarsi su quel mito del suicidio eroico che Mizuki sfata nel modo più sincero e crudo possibile:  non esiste uomo che posto di fronte alla scelta tra la vita e la morte sceglierebbe la via nobile del suicidio, perché gli uomini messi alle strette sono tutti uguali. Non è un peccato non incarnare quel tipo di eroe che muore per la Patria. Il peccato è morir.

Voto  9

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