E’ una Mary Poppins più malinconica quella pensata da Rob Marshall per Il Ritorno di Mary Poppins, sequel supercalifragilistichespiralidoso del classico Disney del 1964 di Robert Stevenson: la splendida Emily Blunt si infila nel soprabito, nel cappello e soprattutto sotto l’ombrello che furono di Julie Andrews rigettando il trucco anti-invecchiamento (digitale e non) e mettendo in mostra le rughe sotto gli occhi: sono passati più di cinquant’anni dal film originale e circa una trentina dagli eventi che narravano, i piccoli Michael e Jane sono diventati adulti e adesso hanno i volti rispettivamente di Ben Whishaw e Emily Mortimer (ma il vecchio banchiere Mr. Dawes è ancora interpretato da Dick Van Dyke, che negli anni è invecchiato esattamente come predisse il trucco del film di Stevenson) e Londra è caduta nella Grande Depressione.
E in effetti è un film molto depresso e deprimente, quello immaginato da Marshall, grigissimo nel primo atto, pieno di nebbia e vento: la moglie di Michael è morta un anno prima dell’inizio del film, lasciandolo da solo a crescere i loro tre figli (Annabelle, John e George) e a badare al villino di famiglia; Michael è un pittore fallito che si è rimediato banchiere per riuscire a portare il pane in tavola per i suoi figlioli, ma il nuovo impiego potrebbe non bastare dato che a causa di un debito insoluto con la stessa banca per la quale lavora – e di cui suo padre George era socio anziano – la sua casa sta per essere pignorata.
Tante lacrime, canzoni struggenti, momenti tristi e poche speranze, decantate solo ed esclusivamente dall’onnipresente acciarino Jack (Lin-Manuel Miranda): poi arriva la Mary Poppins di Emily Blunt e tutto cambia, il sole finalmente torna a splendere su questa Londra sconsolata e soprattutto la magia si risveglia in casa Banks.
Marshall ricalca la sceneggiatura del film originale dimenticandosi però di tralasciare i difetti: la durata, oltre i 130 minuti, è davvero esagerata, l’intreccio è piuttosto schematico e ripetitivo nella sua natura quasi episodica tutta basata sugli stacchi musicali e il terzo atto è infinitamente lungo e poco incisivo, tutte stonature che caratterizzavano il film del ’64 e che qui ritornano esattamente come la tata protagonista. A differenza del film con la Andrews poi i brani mancano di incisività, non ci sono i tormentoni come A Spoonful of Sugar, Supercalifragilisticexpialidocious e ovviamente Chim Chim Cher-ee, e almeno alla prima visione sarà difficile che una singola traccia riesca a rimanervi in mente (e la colpa non è da imputare al doppiaggio italiano, comunque buono: le canzoni del primo film del resto erano perfette anche nella nostra lingua).
Dove invece questo sequel si esalta è negli aspetti tecnici, praticamente perfetti: coreografie, stacchetti, effetti speciali, montaggio e regia sono eccelsi, con Marshall sempre inventivo quando si tratta di escogitare nuove idee visive e la Blunt e Miranda meravigliosamente in parte. La sequenza che mescola live-action ad animazione 2d farà la gioia di grandi e piccini, suscitando lo stesso stupore che il primo film scatenò all’epoca, e da sola vale l’intero prezzo del biglietto. Anche per due.
Rob Marshall ha creato la favola perfetta per le nuove generazioni, sempre emozionante nonostante i piccoli difetti, cui comunque sarà facile non fare caso: in proiezione stampa c’erano così tante lacrime che sembrava di essere all’anteprima di Aquaman, quindi siete avvisati!