In un quartiere periferico sul litorale romano fatto di campetti da calcio, palazzine decadenti, stradine dissestate e pianure sabbiose, Matteo Garrone mette in scena un fatto di cronaca del 1988 spogliandolo di tutti i dettagli superficiali, i riferimenti giornalistici e la concretezza del reale, lo inserisce in un contesto atemporale trascendente e se ne serve per raccontare una favola nerissima sull’oscura complessità degli abissi in cui va ad affogare la dignità umana.
Al centro del film – che tratta temi universali, temi in cui ogni spettatore sarà in grado di riconoscersi; è questa la potenza del vero cinema – un uomo semplice, un uomo comune, dal volto sgraziato ma dalla vita aggraziata, una vita divisa fra l’amore per la figlia e l’amore per i suoi cani (è il proprietario di un negozio di toilettatura per cani, di cui va più che fiero). Amichevole con tutti e da tutti ben voluto, Marcello (interpretato dall’attore non professionista Marcello Fonte) vive un’esistenza piena di contraddizioni all’interno di un contesto sociale estremamente contraddittorio: un quartiere surreale, al di là del tempo, un 1988 con i computer e i televisori al plasma, palesemente debitore – da un punto di vista visivo e pittorico (Garrone era un pittore) – ai paesaggi western, o a quelli post-apocalittici di Mad Max, o perfino alla Coney Island de I Guerrieri della Notte di Walter Hill.
E’ un limbo metafisico, una realtà sospesa sull’irrealtà, un mondo che sembra il nostro ma che forse non lo è (oppure si), un purgatorio nel quale per i personaggi che lo abitano si alternano costantemente gioie e dolori. Un purgatorio governato da un diavolo, un diavolo ingestibile, inarrestabile, padrone di ogni cosa, di ogni vita e di ogni destino.
Garrone, all’interno di un film senza intreccio – figlio diretto de L’Imbalsamatore e mezzo parente di Gomorra, praticamente agli antipodi cinematografici rispetto all’ultimo Il Racconto dei Racconti – imbastisce la storia sul racconto di come una vita (quella del protagonista) venga costantemente e inevitabilmente trascinata da un’altra (quella dell’antagonista) verso l’unica fine possibile. Non c’è bisogno di creare suspance con l’intreccio narrativo perché è il contesto a stabilire la piega che prenderà il racconto (e in questo il film vanta uno spirito da tragedia greca, nella quale il destino dei personaggi è implicitamente segnato) e quindi il regista può concentrarsi su un altro tipo di intreccio, quello delle vite di protagonista e antagonista, simboli rispettivamente di tenerezza e violenza, che per quanto diversi l’uno dall’altro non possono fare a meno di cercarsi, di incontrarsi, di mescolarsi e infine annullarsi a vicenda.
Non avevamo ancora visto un Matteo Garrone alle prese con le gentilezze di cui è capace l’uomo: finora il regista romano aveva sempre avuto a che fare con la durezza e sempre l’aveva espressa con film duri, spietati, che così sapientemente si sposavano coi suoi toni e col suo stile. Dogman è qualcosa di più. E’ un’apertura nei confronti del lato tenero dell’anima umana, quel lato che è in tutti noi sempre e comunque e che nonostante sia vivo e pulsante per emergere – o sopravvivere – deve costantemente rivaleggiare col suo rovescio, col suo opposto: quello brutale, feroce, animalesco.
A volte gli tiene testa. Altre volte no.