Ne La Fratellanza ci sono tantissimi elementi già visti decine di volte in decine di altri film, ma l’esperto Ric Roman Waugh, regista losangelino classe 1968, riesce a mescolarli in maniera convincente nel confezionare questo crime-noir-drama che scricchiola un po’ ma convince in gran parte.
Jacob Harlon detto Money è finalmente uscito dal carcere. Dieci anni prima era un altro Jacob Harlon, una persona completamente diversa, uno che i money li faceva sul serio e in maniera assolutamente legale (era un ricco uomo d’affari con rosee prospettive per il futuro) e soprattuto padre di famiglia: quel Jacob Harlon, che è stato la causa di un terribile incidente d’auto nel quale ha perso la vita il suo migliore amico, oggi non esiste più, schiacciato dagli orribili crimini e dai tanti patti col diavolo stretti per sopravvivere alla galera.
Lo stile di vita che ha conosciuto dietro le sbarre non ha intenzione di lasciarlo andare, però, e anzi è l’unico stile di vita che gli è rimasto: riunitosi con la sua gang, Money è costretto dal suo capo a compiere un pericoloso crimine, che vede coinvolti membri del cartello della droga messicano e armi di contrabbando.
Ma Jacob forse è ancora lì da qualche parte, sepolto sotto le nefandezze di Money. E forse ha in mente un piano che possa salvaguardare se non lui, almeno gli interessi della sua famiglia.
Si, dalla sinossi lo avrete capito. L’originalità non è il pezzo forte de La Fratellanza. Però il film merita il vostro tempo, e per varie ragioni.
Primo, l’approccio spontaneo ed elegante col quale Waugh si diverte a flirtare coi cliché di un genere ultra-saturo. Il concetto non viene mai esplicitato a parole (e questo è un altro pro), ma per tutto il film si ha una sensazione di inevitabilità, di predestinazione, di destino segnato. Il film non scade mai nella banalità di volersi ergere a slogan di denuncia contro il sistema giudiziario americano (Jacob viene trasformato in un criminale a causa del tempo passato in prigione) ma il pensiero di Waugh è fortissimo e chiarissimo fin dal primo istante.
Secondo, l’interpretazione di Nikolaj Coster-Waldau. Se Jaime Lannister è uno dei miei tre personaggi preferiti del fantasy HBO è anche e soprattutto merito della bravura di questo attore danese, che mi era piaciuto tantissimo in La Madre di Muschietti e ancor di più nel dramma danese Second Chance della Bier (ricordate chi e con quale film lo lanciò nel cinema americano? Un indizio: il signore in questione ha diretto Blade Runner). In La Fratellanza il buon Nikolaj dà anima e corpo, e nel corso dei 120 minuti di film (durata giusta, anche se forse si poteva scendere fra i 100 e i 110) vi affezionerete al suo Jacob e farete il tifo per lui, un po’ come avete fatto per Walter White.
E’ un film duro, quello di Waugh, che non scende a compromessi (se non nel finale, forse un po’ troppo buonista: lo avrei apprezzato di più se la crudezza visiva fosse stata accompagnata da più asprezza emotiva) e che non vuole mai giustificare il comportamento del suo protagonista: Jacob fa quello che fa perché deve farlo, perché è stato messo nelle condizioni di doverlo fare per poter riuscire a sopravvivere.
Il tempismo di uscita nelle sale probabilmente non è dei migliori visti i recenti e tristemente noti fatti di cronaca (soprattutto se consideriamo che Jacob ha tatuato sulla schiena un grosso e quasi sempre visibile WHITE SUPREMACY), che potrebbero fiaccare l’interesse nei confronti del film e di riflesso intaccare gli incassi.
Ma nonostante si comporti molto spesso da carnefice, Jacob è in primo luogo una vittima. Il film non ce lo dice, ma ce lo fa capire. E per questo funziona.