22 Luglio di Paul Greengrass | Recensione

Pubblicato il 13 Ottobre 2018 alle 15:00

Il nuovo film di Paul Greengrass è disponibile su Netflix.

Non gliela stringeva quella mano il dottor King Shultz al latifondista Calvin Candy in Django Unchained di Quentin Tarantino: il cattivo di Leonardo Di Caprio era l’ignoranza del diciannovesimo secolo, quello di Christoph Waltz rappresentava il progresso della modernità, e il secondo preferiva sparare a tradimento nel petto del primo e farsi giustiziare piuttosto che scendere a compromessi, ad abbassarsi al suo livello, a rinunciare alla propria integrità morale.

Ci sarà un momento molto simile nel bellissimo 22 Luglio, nuovo film scritto e diretto da Paul Greengrass appena sbarcato sui lidi Netflix dopo essere stato presentato in anteprima al Lido del Festival di Venezia: la storia la conosciamo, è quella degli attentati ad Oslo del ventidue luglio 2011, giorno in cui Anders Behring Breivik, simpatizzante dell’estrema destra, si travestì da poliziotto e con un attacco coordinato piazzò un’autobomba davanti al palazzo del primo ministro norvegese e poi, appena due ore più tardi, si recò sull’isola di Utøya e sparò a vista ai ragazzi e alle ragazze che stavano frequentando un campus estivo organizzato dal partito laburista.

Dopo la tesissima, agghiacciante scena iniziale, che mescola l’azione tipica di Greengrass alle atmosfere di Polytechnique di Denis Villeneuve ed Elephant di Gus Van Sant, il film si trasforma in uno studio psicologico che esamina la società puntando la sua lente d’ingrandimento verso l’individuo, cercando di comprendere le contrastanti coscienze politiche della popolazione prendendo come campione i soggetti della storia.  E’ una sineddoche cinematografica imbastita alla grande da Greengrass, che sembra essere tornato ai livelli artistici dei suoi migliori lavori (The Bourne Ultimatum, Bloody Sunday e ovviamente United 93, che hanno molti punti di contatto con questo 22 Luglio) e realizza un’opera intelligente,politicamente pulsante, spietata, freddissima ma sincera, e quindi anche molto commovente.

Nel film come detto seguiamo i particolari per costruire un quadro generale della vicenda, da Viljar (un ragazzo miracolosamente sopravvissuto all’attentato dopo essere stato colpito cinque volte dai proiettili di Breivik, una delle quali alla testa) ai membri della sua famiglia (anche il fratello minore di Viljar era sull’isola durante la strage), al primo ministro norvegese  Jens Stoltenberg all’attentatore stesso, naturalmente, fermamente convinto delle sue opinioni politiche e doppiamente fiero delle sue gesta.

Greengrass si concentra in particolar modo anche sull’avvocato di Breivik, Geir Lippestad, richiesto espressamente dall’estremista come difensore d’ufficio ma appartenente al partito laburista: se la lotta interiore di Viljar per trovare nuove ragioni di vivere dopo l’incubo orribile vissuto e quella sociale di Breivik sono le due idee che si scontrano, le forze opposte che muovono le fila del film, in mezzo c’è la spaccatura morale di questo avvocato dalla vita perfetta e dal curriculum immacolato che si ritrova a dover difendere i diritti di una persona che disprezza.

Il punto più interessante di tutto il film è proprio questo, però, ed è qui che sta tutta la tesi di Greengrass: chiunque, perfino la persona più spregevole che sia mai nata sulla faccia della Terra, perfino Hitler e perfino Breivik hanno diritto ad una difesa imparziale e ad un processo equo. La democrazia funziona in questo modo, ed è con la democrazia che si combatte il male dell’estremismo.

Ottimo il cast, che a differenza di Ore 11: 17 – Attacco al Treno di Clint Eastwood non mette in scena come attori le stesse persone che vissero realmente i fatti raccontati dal film, ma incrementa il suo realismo puntando esclusivamente su attori norvegesi. Jon Øigarden, che interpreta l’avvocato, è praticamente il fratello gemello del vero Lippestad).

Un film meticoloso e focalizzato, che dura tanto (siamo oltre le due ore e mezza) ma dà tanto allo spettatore, e non annoia mai.

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