Un Affare di Famiglia di Kore-eda Hirokazu | Recensione

Pubblicato il 27 Settembre 2018 alle 15:00

Arriva in Italia Un Affare di Famiglia, nuovo film di Hirokazu Kore-eda premiato a Cannes con la Palma d’Oro.

C’è questa cosa ammaliante e sempre sorprendente nel cinema di Hirokazu Kore-eda, e cioè la capacità che questo straordinario cineasta di descrivere con assoluta pacatezza e sincero affetto le persone più spregevoli.

Negli ultimi anni lo ha fatto con Ritratto di Famiglia Con Tempesta, lo ha fatto con Father and Son, lo ha fatto con Our Little Sister, lo ha fatto con Sandome no satsujin  ma del resto già lo faceva con Maborosi nel ’95: che si tratti di perdenti, assassini, ladri o rapitori di bambini, in tutto e per tutto individui appartenenti agli scarti della società, alla feccia umana, lui ha un modo di guardarli così intimista, così umano, un modo così delicato di puntare verso di loro la sua cinepresa, che alla fine, nonostante le evidenti colpe con cui questi personaggi devono convivere, tu da spettatore non puoi fare a meno di compatirli, e affezionarti a loro perfino.

Osamu e sua moglie Nobuyo non hanno più tempo per fare sesso. Entrambi di mezza età, vivono in un piccolissimo appartamento fatiscente nella periferia di Tokyo insieme a un figlio pre-adolescente di nome Shota, alla sorella minore di Nobuyo e alla fragile nonna, che con la sua pensione contribuisce ad impedire che questa misera e traballante comune vada in pezzi.

Un giorno incontrano una bambina di cinque anni di nome Juri, che è stata abbandonata dai suoi genitori violenti nei pressi del loro appartamento. Nel mondo di Kore-eda la cosa sbagliata sarebbe lasciarla lì al suo destino, e così la famiglia decide di prendere la bimba e darle una nuova casa. Del resto non è un rapimento se non chiedi un riscatto, e secondo la loro logica emotiva le persone (e le cose: la famiglia vive di taccheggio) dovrebbero appartenere a chi le ama di più, e a chi ne ha più bisogno.

Un Affare di Famiglia quindi non fa che rimarcare la dote quasi unica che Kore-eda può vantare, questa sua disarmante dolcezza, e allo stesso tempo riprende un po’ il discorso dell’appartenenza iniziato ai tempi di Nessuno Lo Sa, vivacizzandone il senso di solitudine nella prima parte così che l’ultimo atto sia ancora più tremendo.

Il film infatti trascorre circa 90 minuti ad immergere lo spettatore nella vita, nelle speranze e soprattutto nelle preoccupazioni quotidiane di questa famiglia idiosincratica (composta da nonna, padre, madre, sorella di quest’ultima, un figlio pre-adolescente e una figlia … ma fin dall’inizio si intuisce che c’è qualcosa che non va) per poi cambiare drasticamente timbro nell’ultimo atto, quando il regista prende i suoi personaggi e li stritola, come se volesse cavargli fino all’ultima goccia di umanità. A quel punto le profonde rotture emozionali covate nei precedenti due atti si trasformano improvvisamente in realtà, e tutte le briciole di pathos disseminate qua e là nella languida placidità della narrazione vengono inevitabilmente raccolte.

Quando ciò accade non è che sia inatteso, ma di certo è travolgente. Così come è travolgente la messa in scena minimalista di Kore-eda, che lascia ai suoi attori tutto lo spazio necessario per entrare nella pelle e nell’anima di questi personaggi, al punto in cui spariscono in essi.

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