Tomb Raider – Recensione in anteprima

Pubblicato il 15 Marzo 2018 alle 10:00

Lara Croft è la giovane figlia di Lord Richard, un ricco imprenditore ed eccentrico archeologo scomparso da sette anni, alla ricerca della mitica isola perduta di Yamatai. Lara trascorre le giornate senza uno scopo, tra il lavoro di corriere, gli allenamenti di kick-boxing e le corse clandestine in bicicletta, rifiutandosi di credere che il padre sia morto e di ereditare il suo impero. Intenzionata a svelare il mistero della sua scomparsa, la ragazza si avventura nel Triangolo del Drago e dovrà vedersela con una pericolosa milizia.

La differenza che intercorre tra la Lara Croft dei primi videogiochi anni ’90 di Tomb Raider e la versione del reboot uscito nel 2013 è fortemente indicativa della transizione culturale avvenuta nell’ultimo ventennio. La Lara originale, prosperosa e badass, corrispondeva all’iconografia femminile dell’epoca, quando sui teleschermi ballonzolavano le tette di Pamela Anderson strizzate in un costume rosso da bagnina e, nei fumetti, esplodevano le supereroine poppute e discinte di Rob Liefeld. I nerd trovarono una nuova immaginaria icona sexy scatenando anche fenomeni piuttosto squallidi come la caccia alla patch per giocare con l’eroina nuda, le cui rotondità erano rese spigolose dalla grafica poligonale. L’Indiana Jones in gonnella trova la sua prima incarnazione cinematografica in Angelina Jolie, unica ragione per guardare due trasposizioni altrimenti irrilevanti.

L’ondata di realismo tutta nolaniana e il vento femminista che sta rinforzando in questo periodo hanno portato ad una drastica e controversa rilettura del personaggio per il reboot videoludico di cinque anni fa, operata, non a caso, da una donna, Rhianna Pratchett (figlia del celebre autore fantasy Terry Pratchett). Il seno di Lara è calato quindi di qualche misura, vuoi per sottrarla ad una visione mercificatrice della figura femminile, vuoi perché l’indebolita sospensione dell’incredulità del pubblico non sta più al gioco e non accetta che un’eroina di fiction possa muoversi e combattere agilmente con una quinta di reggiseno.

A dirigere la nuova versione filmica è stato chiamato il norvegese Roar Uthaug, ennesimo regista d’estrazione indipendente che viene bruscamente trapiantato nel blockbuster hollywoodiano ad alto budget per ragioni misteriose che forse un giorno i produttori vorranno spiegarci. E Uthaug si fa trovare puntualmente impreparato all’appuntamento.

Anziché creare una storia originale per il film, è stata presa la sciagurata decisione di trasporre il videogioco reboot, seppur con le dovute licenze. Un errore per diversi motivi. Anzitutto, i fan del gioco sanno già cosa aspettarsi in linea di massima dalla storia e quindi gran parte del fattore sorpresa viene a mancare. Inoltre scatta l’inevitabile confronto con l’originale, già forte della componente immersiva che l’adattamento non può avere. Ma, pur limitandosi a guardare il gameplay del gioco senza mettere mano al joypad, si tratta comunque un’esperienza più gradevole del film.

L’esile Alicia Vikander ce l’ha messa tutta per scolpirsi un fisico credibile e dar vita ad una Lara Croft piacevole, coraggiosa, indipendente e parecchio sfigata, un guscio esteriore forte con un animo sensibile all’interno. Rifiuta di adagiarsi sul patrimonio del padre ma è destinata ad ereditarne l’impero come Bruce Wayne, fa consegne a domicilio come Peter Parker in Spider-Man 2 e corse clandestine in bicicletta in una versione innocua di Fast & Furious. Forse la nuova Lara diventerà davvero un’icona per le nuove generazioni ma è tutto il resto che non funziona e non la sostiene.

L’unica idea di regia di Uthaug è quella di usare la camera a mano per cercare di rendere più coinvolgente l’azione ma finisce solo per far venire la nausea al pubblico. Se il gioco, dopo un breve antefatto, si apre sull’isola e ci catapulta nell’azione, il film impiega quasi un’ora per arrivarci, introdurre la protagonista, la sua backstory, risolvere un paio di puzzle archeologici e butta lì due inseguimenti che non hanno niente a che vedere con la storia principale. L’approccio è troppo serioso, lo sviluppo meccanico, prevedibile e senz’anima. Ci sono in tutto tre comprimari: il compagno d’avventura Daniel Wu, papà Croft-Dominic West e il cattivo Walton Goggins, uno più monodimensionale dell’altro.

Soprattutto manca quel sense of wonder che eleva l’eroe a mito. Tomb Raider è sempre stato un franchise derivativo e i confronti scattano in automatico. La parte ambientata nella giungla vorrebbe essere Rambo ma il veterano del Vietnam interpretato da Sylvester Stallone era uno che se ne usciva con una frase iconica del tipo “Murdock, sono io che vengo a prenderti!”, illuminato dal bagliore di un fulmine, e, un attimo dopo, si liberava dei suoi aguzzini, ne friggeva uno su una piastra elettrica e scatenava l’inferno. Qui abbiamo Lara che si limita a scagliare qualche freccia.

L’escursione finale nel tempio della Regina Himiko vorrebbe essere Indiana Jones ma l’archeologo creato da George Lucas e Steven Spielberg si lanciava da un aereo su un canotto e inseguiva a nuoto un sommergibile, sostenuto dalla musica di John Williams. Lara schiva un rullo di aculei digitali al rallenty – vezzi estetici da cinevideogame che hanno fatto la muffa da almeno dieci anni – senza esaltare, senza raggiungere un apice emotivo e priva del sostegno di un tema musicale riconducibile.

Per inciso, i film Marvel ci hanno abituati alle scene durante e dopo i titoli di coda. Qui viene inserita prima dei titoli, è già ampiamente spoilerata nei trailer e ci restituisce la Lara un po’ tamarra dei giochi originali.

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