La Ruota delle Meraviglie di Woody Allen | Recensione

Pubblicato il 15 Dicembre 2017 alle 20:00

Arriva in Italia il nuovo film di Woody Allen, che per la prima volta dirige l’attrice premio Oscar Kate Winslet.

Ormai alle soglie del cinquantesimo lungometraggio (siamo a quarantanove) Woody Allen torna a chiudersi nella sua New York dopo il bisogno di espansione ed esplorazione sperimentato l’anno scorso con Cafè Society. Se nel film con Jesse Eisenberg il regista aveva vagato in andata e ritorno per le due Americhe (New York/Los Angeles – Los Angeles/New York), permettendo al suo protagonista di fare incontri, arricchirsi ed evolversi – abbracciando tutto il bene e tutto il male che comporta l’aprirsi agli stimoli di mondi diversi dai soliti – in La Ruota delle Meraviglie non accade nulla di tutto ciò: il film è piccolo, piccolissimo, tutto concentrato fra gli esterni e gli interni di una Coney Island tanto sfarzosa quanto limitante, quasi opprimente – con i suoni delle giostre off-screen che continuamente irrompono e rompono i timpani (e non solo) – riprodotta un po’ al computer e un po’ attraverso le bellissime scenografie teatrali di Santo Loquasto (ma che ci troviamo dalla parti del teatro ci viene detto fin dall’inizio, quando uno smorto Justin Timberlake, davvero poco convincente, inizia a parlare al pubblico guardando in camera).

Quindi Allen fa risorgere la Coney Island degli anni ’50, quella della sua adolescenza (ma lui ci andava per rimorchiare, non per appiccare gli incendi, come invece è solito fare uno dei personaggi del film, forse il più divertente, e già questo fa capire quanto è triste questa sorta di melodramma poco riuscito e molto piatto) ma lo fa non tanto attraverso il proprio racconto quanto piuttosto grazie a Vittorio Storaro: alla sua seconda collaborazione consecutiva con il regista di Brooklyn, il dop del Bel Paese gioca con le luci e i colori di questo limitatissimo mondo per farsi carico della sottolineatura dei cambiamenti d’umore dei personaggi, la cui evoluzione rimane purtroppo esclusivamente cromatica, mai interiore ma sempre esteriore.

Carolina (Juno Temple), figlia giovane, bella e ribelle del rude giostraio Humpty (Jim Belushi), ritorna improvvisamente a casa per fuggire dall’opprimente matrimonio con un gangster. La sua presenza disturberà non poco il precario equilibrio emotivo di Ginny (Kate Winslet), ex attrice e ora cameriera alle soglie dei quaranta sposata con Humpty ma impegnata in una tresca estiva con Mickey (Justin Timberlake), giovane reduce della Seconda Guerra Mondiale col sogno di diventare scrittore.

Questa la premessa, dopo di che è chiaro che succederanno cose (per caso, perché nell’epica tragica che Allen ci racconta da Match Point è sempre il caso a determinare il destino dell’umanità) per colpa delle quali la situazione di partenza verrà compromessa, ma neppure poi tanto. La storia di Ginny è drammatica e relegata a quel limitato angolo di mondo, e nonostante lei provi a cambiare questa realtà – anche in maniera meschina – il suo inevitabile destino è già deciso, circoscritto a quel monolocale, a quella spiaggia e a quelle giostre.

L’operazione commerciale (perché, checché ne dicano gli alleniani fanboy, Allen è commercio puro e semplice: come Walt Disney sprizza capitalismo da tutti i pori, la sola differenza è che commerciano due prodotti diversi; non che ci sia nulla di male in questo dato che, ehi, notizia flash, il cinema è un prodotto che va venduto) di prendere per mano Kate Winslet e portarla agli Oscar come era accaduto con la Cate Blanchett di Blue Jasmine (film che sta proprio in un’altra categoria rispetto a La Ruota delle Meraviglie) probabilmente si risolverà con un nulla di fatto – non tanto per colpa dell’attrice quanto per il personaggio che le è stato consegnato da Allen, questa donna tragica fatta di  monodimensionale fragilità (a tratti sembra più interessante la Caroline di Juno Temple o il rozzo Humpty di Jim Belushi, che fra questo film e l’interpretazione in Twin Peaks ha spazzato via l’impronta comica che ha lasciato nell’arco di tutta la sua carriera) che come una ruota panoramica gira e gira ma non va da nessuna parte.

Spiccano, più dei personaggi stessi, i tramonti artificiali e le albe finte di Vittorio Storaro, che rubano la scena e diventano i protagonisti di questo mondo saturo di ocra e indaco. Da questo punto di vista il film assume un interesse tutto suo dato che, insieme al precedente Cafè Society (sempre in collaborazione col dop romano), è quello che più di tutti ha messo in mostra l’estetica e la forma piuttosto che la sostanza, l’immagine invece che la parola.

Che sia arrivata l’ora per una nuova, ultima evoluzione artistica per questo genio del ‘900? Ci basterà aspettare l’anno prossimo per scoprirlo.

 

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