Thor: Ragnarok | Recensione

Pubblicato il 24 Ottobre 2017 alle 23:26

Hela, la Dea della Morte, usurpa il trono di Asgard intenzionata a scatenare il Ragnarok. Nello scontro con la dea, Thor e Loki finiscono sull’inospitale pianeta Sakaar dove il Dio del Tuono viene catturato da Valkyrie e costretto a partecipare ai giochi gladiatori organizzati dal Gran Maestro. Thor scoprirà che l’incontrastato campione dei giochi ed idolo della folla è un suo vecchio alleato: l’incredibile Hulk.

Il Mjolnir sulla tavoletta del copriwater. E’ stata questa una delle prime immagini mostrate sui social dal regista e attore comico neozelandese Taika Waititi all’inizio della produzione di Thor: Ragnarok a indicare il cambio di rotta nella saga cinematografica del dio del tuono che, pure nei due episodi precedenti, aveva raramente toccato i toni aulici del fumetto originale.

Waititi, d’estrazione indipendente, segue la via tracciata da James Gunn con Guardiani della Galassia nel Marvel Cosmic Universe in piena espansione, portando sullo schermo un mondo variopinto ricco di gag surreal-demenziali, più in linea con un cartoon di Tex Avery che con un fumetto Marvel. Tuttavia, se Gunn ha giustificato sul piano narrativo i riferimenti alla cultura popolare anni ’80, appaiono invece molto più gratuiti in Thor: Ragnarok.

La mitologia nordica si ammanta di scanzonata space opera mantenendo alla base la struttura classica del peplum, da Spartacus a Il Gladiatore, la saga archetipica del legittimo erede al trono ridotto in schiavitù, esiliato dalla madrepatria e costretto a combattere nell’arena mentre l’usurpatore governa con pugno di ferro.

La sovrabbondanza di personaggi è croce e delizia del film che dà spazio ad uno stuolo di grandi attori che si perdono però nella confusione. Chris Hemsworth si libera dell’ingombrante Mjolnir e tratteggia un Thor più smaliziato e maturo, a capo dei cosiddetti “Revengers”. Hulk è uno dei personaggi più attesi del film che trae spunto dalla celebre story-arc Planet Hulk ma il Golia Verde sta sullo schermo principalmente per lo scontro con Thor, al di sotto delle aspettative, coreografato con scarsa inventiva, anche se ricalca bene le innocue risse tra supereroi tipicamente Marvel.

La Valchiria nera (e va benissimo così) di un’adorabile e tosta Tessa Thompson (Creed, Westworld) è il personaggio che denota l’arco narrativo più consistente seppur sviluppato per sommi capi. Loki è presente più per onore di firma e per la gioia dei fan che per effettiva utilità, deve mantenere una sua ambiguità per distanziarsi dalla ridondanza di villain.

I due cattivi principali richiamano la caratterizzazione di quelli del Superman di Donner. Il Gran Maestro di Jeff Goldblum è gigione come il Lex Luthor di Gene Hackman mentre la Hela di Cate Blanchett è deliziosamente monodimensionale e priva di sfumature come il Generale Zod di Terence Stamp.

E poi, ancora, Anthony Hopkins chiude alla bell’e meglio l’arco narrativo di Odino; Idris Elba, sprecato nei funzionali panni di Heimdall, fa benissimo a lamentarsi nelle interviste chiedendo un ruolo di maggior rilievo; lo Skurge di Karl Urban pare uscito da un film de I Mercenari; Doctor Strange presente in una sequenza divertente e pretestuosa; lo stesso Waititi interpreta in motion capture un Korg fanciullesco; Matt Damon e Sam Neill compaiono in uno spassoso cameo metacinematografico.

Waititi sembra più preoccupato a suscitare le risate del pubblico che a mettere sullo schermo un’avventura dall’afflato epico autentico, sviluppata in maniera prevedibile, divertente ma con delle cadute di gusto vanziniane, come la scena in cui il Dio del Tuono sgrana gli occhi sul pene di Hulk. L’action, gravata dai soliti effetti digitali senza infamia e senza lode cui ci hanno abituati i Marvel Studios, è buttata più sulla rissa che sulle singole gag. La storia verte al grande colpo di scena finale, peraltro prevedibile, che apre al prossimo Avengers: Infinity War come anticipato nella prima scena durante i titoli di coda. La seconda è una burletta inutile. A fronte di un giocattolo studiato per ammansire il pubblico mainstream, si ha la sensazione che il caro vecchio Dio del Tuono si stia perdendo nella confusione.

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