Recensione – Netflix – War Machine, di David Michôd

Pubblicato il 31 Maggio 2017 alle 15:00

Dopo l’insipido Sand Castle Netflix torna a raccontare l’aggressiva politica estera statunitense con l’imperfetto ma divertentissimo War Machine, in cui spicca un mastodontico Brad Pitt.

Ci sono due modi ugualmente efficaci per realizzare un film di guerra: sottolineandone l’insensatezza attraverso racconti di follia (Apocalypse Now) o di brutalità (senza andare troppo indietro nel tempo, La Battaglia di Hacksaw Ridge), oppure enfatizzando la sua inutilità con sofisticate commedie satiriche (Il Dottor Stranamore, Il Grande Dittatore, Three Kings).

Con War Machine, David Michôd tenta di fare entrambe le cose, proponendoci una storia matura e complessa che ha per protagonisti personaggi talmente strambi che sembrano usciti da una vignetta di Charlie Hebdo.

Fulcro centrale della sceneggiatura è il controverso comandante Glen McMahon (aka Big Glen, aka Glen la Bestia), inviato in Afghanistan per risolvere lo stallo dell’inefficace occupazione USA, protrattasi ormai per otto anni.

Fin dai primi minuti del film è chiara l’intenzione del regista: eleggere McMahon ad emblema degli Stati Uniti d’America. Il generale interpretato da un canuto Brad Pitt è pieno di ammirevoli ideali e buona volontà, ma ostinato come un somaro e miope come un cavallo coi paraocchi quando si tratta di guardare in faccia la realtà: e cioè che l’integrazione USA/Afghanistan non è fattibile per il semplice fatto che gli afghani vogliono soltanto essere lasciati in pace.

War Machine è il primo film del regista australiano con un senso dell’umorismo predominante (gli altri due film sono l’ottimo crime-drama Animal Kingdom e il dramma post-apocalittico The Rover): ciò che lo collega ai precedenti lavori è la sottile intelligenza narrativa e le formidabili impronte registiche.

Un titanico Brad Pitt guida un eccellente cast di attori, ognuno col proprio spazio e con le proprie battute cult (“Sono confuso, generale!, dirà un giovane soldato a McMahon, e il generale gli risponderà: “Allora è meglio che cominci a sconfonderti!”). La colpa maggiore del film è quella di voler raggiungere ad ogni costo i 120 minuti dando l’impressione, durante il secondo atto, di mettersi a strisciare a fatica sui gomiti pur di arrivare al traguardo. Un’ora e mezza sarebbe stata non solo sufficiente, ma addirittura ottimale.

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