Knight of Cups – Recensione

Pubblicato il 10 Novembre 2016 alle 23:35

Rick è uno scrittore apatico in crisi esistenziale che vive un rapporto conflittuale con il padre ed il fratello. Nel tentativo di scuotersi dal suo torpore, Rick erra tra il vacuo sfarzo e il decadente edonismo di Los Angeles e Las Vegas ma anche tra la bellezza di paesaggi ammalianti e strade ricche di vita tumultuosa, un viaggio di ricerca interiore segnato da sei donne affascinanti.

Knight of Cups poster

Christian Bale è Rick, il Knight of Cups, il Fante di Coppe dei Tarocchi che sta ad indicare un individuo immaturo, riflessivo e in fase di evoluzione. Il regista Terrence Malick proietta nel protagonista un’intima alienazione proseguendo il discorso di crescita iniziato con Tree of Life ed inanella una serie di immagini e suggesioni in un flusso di coscienza visivo piuttosto ermetico, privo della struttura di una sceneggiatura.

La macchina da presa passa continuamente dalla soggettiva del protagonista a fluttuargli intorno con un effetto spersonalizzante, sfuggente, amplificato dalla didascalica voce fuori campo di Bale che raramente profersice verbo nella cornice dell’inquadratura. Rick è uno sceneggiatore, inventa esistenze altrui ma non riesce a vivere la propria. Una vita frammentaria, come la definisce lui stesso, che si riflette in un montaggio altrettanto spezzettato. La regia spazia da immobili, deserti, maestosi scenari naturalistici alla frenesia del caos urbano fin dentro la fatua opulenza hollywoodiana dalla quale il regista si sottrae.

Gli ambienti illuminati dalla suggestiva fotografia di Lubezki e resi alienanti da riprese grandangolari non riescono mai ad essere davvero stimolanti per il protagonista. Neanche il terremoto iniziale lo scuote davvero dalla sua stasi interiore. Il rapporto con gli altri personaggi è lasciato all’improvvisazione, è tutto concettuale, privo di una trama che faccia da raccordo. Solo le carte dei tarocchi fanno da metafora e da filo conduttore tra i capitoli.

Il conflitto con il padre ed il fratello denota l’assenza di una figura materna, femminile, ed è qui che entrano in campo le sei donne, sei storie d’amore, creature salvifiche, enigmatiche, chiavi di lettura per Rick o grimaldelli per scassinarlo con forza: una giovane ribelle (Imogen Poots), la ex-moglie dottoressa (Cate Blanchett) che cova ancora del rancore, una modella profondamente spirituale (Freida Pinto), una stripper trasgressiva (Teresa Palmer), un grande amore perduto e malinconico (Natalie Portman) e una giovane innocente, pura (Isabel Lucas) che porta Rick alla catarsi finale.

Malick cerca di afferrare l’inafferrabile, di portare sullo schermo uno stato d’animo, un’assenza, un vuoto interiore perdendosi tra immagini e musiche evocative, come dovrebbe essere sempre il buon cinema, giungendo però ad un’astrazione troppo intima perché il pubblico possa afferrarla fino in fondo.

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