YA: La Battaglia di Campocarne – Recensione

Pubblicato il 26 Novembre 2015 alle 15:11

Nel villaggio di Zarafa, a sudest del regno di Attalya, vive Stecco, un giovane alto come una pertica e magro come un chiodo. Appassionato di racconti avventurosi, Stecco desidera diventarne il protagonista e decide di partire alla volta di Forte Dorsoduro per essere addestrato dal Granduomo, un leggendario guerriero affiancato dal tenebroso Incappucciato e dalla centenaria Nonna Mannaia. Durante il viaggio Stecco incontra Marta la Brutta, una rude montanara che diventa la sua compagna d’avventura.

Il piacere e l’importanza del racconto costituiscono il punto nodale di YA: La Battaglia di Campocarne, romanzo d’esordio di Roberto Recchioni, prolifico sceneggiatore di fumetti e attuale direttore editoriale di Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore. Lo YA del titolo, oltre ad essere un’esclamazione usata dai personaggi del romanzo, sta a significare Young Adult, filone di successo nel quale va ad inserirsi anche Orfani, serie a fumetti di fantascienza ideata dall’autore romano insieme ad Emiliano Mammucari sempre per la Bonelli.

Emerge dalle pagine del romanzo tutta la cura e l’attenzione di Recchioni per il racconto. Il suo stile asciutto ed essenziale denota chiarezza espositiva e padronanza del linguaggio alternando dialoghi ficcanti costellati di battute memorabili ad un’onesta analisi introspettiva. Tutto arricchito da colorite metafore. I capitoli sono piuttosto brevi e il romanzo si struttura su due linee narrative. La prima si apre nel bel mezzo della battaglia di Campocarne e la seconda è il lungo flashback che racconta come Stecco e compagni siano giunti a quel punto.

Patito della metanarrazione, Recchioni ci racconta di un ragazzo che vuol diventare narratore e protagonista delle storie che ama. Lo scrittore mette molto di se stesso nella vicenda, a cominciare dalle peculiarità fisiche del protagonista Stecco (omaggio al personaggio omonimo di Zerocalcare) per dare il via a quello che sembra un allegorico percorso ad ostacoli verso il successo professionale in una vicenda ricchissima di autocitazioni.

I protagonisti non sono gli eroi aitanti ed audaci che siamo abituati a trovare nei racconti fantasy. Lo spietato cinismo dell’autore ci consegna antieroi sporchi, brutti e inadeguati, come rappresentati nella splendida copertina affumicata color seppia di Gipi. Stecco e Marta la Brutta sono qui affiancati da Trappola, menagramo che ha una valenza simbolica pur restando piuttosto in disparte nella storia rispetto agli altri due.

E’ proprio l’elemento umano, la componente intimista e l’arco narrativo dei personaggi la parte più succosa del romanzo mentre gli elementi fantasy sono ridotti ai minimi termini e sono piuttosto generici come ad esempio gli Invasati, ennesima variazione sul tema zombi, i mostri tanto in voga al momento. Non viene prestata particolare attenzione alla situazione politica di Attalya né vengono approfondite le ragioni della battaglia di Campocarne perché non è questo che interessa all’autore e tantomeno al lettore.

L’avventura di Stecco e Marta verso Forte Dorsoduro è costellata di difficoltà. Il ripido e invalicabile Ponte degli Audaci sembra rappresentare l’inarrivabilità del mito e un traguardo che si raggiunge solo attraverso la passione. La successiva prova d’astuzia, invece, potrebbe essere letta come un approccio umile e rispettoso ai propri maestri. Un’umiltà sana, mai nemica dell’ambizione.

La partita a Briscola Selvaggia con la Terza Sorella, che si rifà naturalmente ai giochi di carte collezionabili fantasy, rimanda inevitabilmente a Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman e ricorda anche il finale de L’Ultimo Cavaliere, primo volume de La Torre Nera, capolavoro metaletterario di Stephen King. Interessante anche la parabola sull’onestà della narrazione, laddove Stecco esagera il resoconto delle proprie vicissitudini e finisce per far arrabbiare il suo pubblico.

Il filtro mitopoietico delle storie costituisce la linea di confine tra l’eroe e l’antieroe e permette all’uomo di assurgere a leggenda. E’ questo il primo passo di un’annunciata trilogia di romanzi e chissà se Stecco, come Roland nella sopracitata epopea fantasy di Stephen King, troverà l’Albero delle Pene, simbolico fulcro su cui ruotano gli universi narrativi di Roberto Recchioni.

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